La lunga strada dei Balcani

pubblicato l’1 marzo 2023 sul n. 60 della rivista periodica Dialoghi Mediterranei dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-lunga-strada-dei-balcani/

Comitato di Redazione1 marzo 2023

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di Eugenia Parodi Giusino

Con due semplici concetti Oliver Jens Schmitt, autore del recente libro I Balcani nel Novecento. Una storia post imperiale (Il Mulino, 2021), ci introduce allo studio di una realtà molto complessa e vicina a noi, una storia di aggregazioni e disarticolazioni post-imperiali ed aggiunge così, indirettamente, alcune chiavi interpretative al fenomeno più drammatico di questo secolo in Europa, il conflitto russo-ucraino e l’invasione russa. Questo assunto è uno dei due punti di partenza per provare a spiegare più di un secolo di guerre, deportazioni di massa e lager, modifica dei confini, persecuzione di civili, conversioni forzate avvenute nella penisola balcanica. L’altro è il concetto di “Stato composito”, che significa eterogeneità strutturale degli Stati premoderni e fa riferimento al fatto che gli Stati postimperiali si componevano di territori appartenenti a più Imperi, con i conseguenti problemi di integrazione.

La scomparsa degli Imperi non significa che sia svanita la loro eredità

Scrive l’autore svizzero:

«Tutti gli Stati balcanici erano nati dal collasso di almeno un impero, alcuni da due o più…La scomparsa degli imperi significa effettivamente che, fra il 1918 e il 1923, abbia avuto inizio qualcosa di fondamentalmente nuovo? La storia postimperiale dei Balcani è in grande misura una storia di violenza…questo libro mostra come gli Stati nazionali, in due decenni di guerra (1912-1923, 1930-1949), con un breve periodo interbellico, e poi sotto i diversi regimi comunisti, abbiano inteso livellare e rendere omogenee società multietniche e plurireligiose».

Se, come dice più avanti, «Le guerre balcaniche furono una prova e i prodromi del primo conflitto mondiale», ripercorrere alcune delle successive vicende di questi Paesi, caratterizzate da rivendicazioni etnico-territoriali, può essere molto utile per decifrare comportamenti e politiche aggressive dell’oggi, anche in altre zone europee; qualche preoccupazione, anche se si tratta di fenomeni marginali, hanno destato negli anni scorsi i legami provenienti da elementi di aree balcaniche (Albania, Bosnia, Montenegro, Macedonia, Kosovo, Serbia) con ambienti della criminalità organizzata. Si parla di regioni, territori, popolazioni, lingue da cui, negli ultimi decenni, sono nati Stati e Repubbliche “nuove”, che vanno radiografati mettendo sempre in corrispondenza la loro storia con quella degli Imperi di cui facevano parte sino a fine ‘800, con i nuovi equilibri post bellici (compresa l’influenza determinante dell’Urss), e naturalmente con il dissolvimento della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia nel 1992.

Soltanto nell’impero austroungarico si parlavano una dozzina di lingue e vivevano insieme polacchi, ungheresi, italiani e altre decine di comunità, tutti sottomessi a Vienna cui pagavano le tasse. Le contese per i confini e altre questioni si sono protratte sino ad anni recenti sotto forma diplomatica, come nel caso della Macedonia e della Grecia. Per fare un esempio, quest’ultima ha insistito presso la Comunità Europea perché il nome della ex Repubblica jugoslava della Macedonia, che nel 2004 aveva richiesto l’ammissione nella UE, fosse modificato in Macedonia del Nord. Intanto si cerca di trovare condizioni di vita migliori anche emigrando. Un gruppo di macedoni che lavorano come braccianti nei vigneti delle Langhe hanno festeggiato la loro Epifania ortodossa – scrive la giornalista Federica Cravero su Repubblica del 20 gennaio scorso – tuffandosi nel Tanaro! I primi sono arrivati ​​trenta anni fa, oggi si sono integrati bene.

Edificio oggi Museo di Sarajevo, 1908

Confini e tensioni

L’impero turco comprendeva nella penisola balcanica Serbia Bosnia-Erzegovina Montenegro Bulgaria Macedonia Dobrugia (oggi spartita tra Romania e Bulgaria) Albania e la Romania meridionale, mentre la Romania del nord e la Bessarabia (odierna Repubblica moldava) erano indipendenti dal 1878. La Grecia conquista l’indipendenza dal 1830, dopo la guerra di indipendenza greca (50 mila caduti), liberandosi dopo quasi quattro secoli dall’assoggettamento turco e dovendo però accettare una restrizione del limes settentrionale. Assieme a “nazionalismo” ed “autonomia” questa parola, limes,è uno dei termini che monopolizza qualunque narrazione si voglia fare di queste vicende, posto che il significato militare della parola non ha perso di senso, come mostra purtroppo l’attuale guerra. Ma un peso enorme ebbe anche la questione islamica, in una regione dove era presente una pluralità di religioni unica in Europa. Secondo Schmitt (2021: 298) «Per gli stati postimperiali nessun legato degli Imperi fu complicato come la questione islamica». A questo proposito si deve tener conto anche degli allineamenti politici, non uguali per tutti i Paesi, della potente chiesa greco-ortodossa, in aperto dissidio con la chiesa greco-cattolica, denominata Chiesa uniate perché in comunione con la chiesa cattolica di Roma. Un accordo tra la chiesa greca e quella latina, infatti, era durato molto poco, appena quindici anni.

In aggiunta alle forti tensioni tra credi religiosi diversi, tutti gli Stati e le aggregazioni post belliche, ebbero come punto di riferimento e come presenza ingombrante i rapporti, le tensioni, la dipendenza di tipo economico e ideologico dall’Unione Sovietica. Oggi l’impatto dell’invasione russa all’Ucraina nei Balcani occidentali è ingente e condiziona l’iter di adesione di questi paesi alla Unione Europea. In una relazione del 2022 dell’Osservatorio di Politica Internazionale del Governo Italiano [1] Sabina De Silva enumera almeno tre fenomeni influenti: l’adesione alle sanzioni europee verso la Russia cui questi Paesi, tranne la Serbia, hanno aderito, il pericolo riguardante la stabilità e la tenuta democratica delle Repubbliche e il fenomeno migratorio delle rotte balcaniche, peraltro preesistente.

Pannello di Exodus, di Safet Zec, artista bosniaco

Una stabilità effimera?

Ma perché i Balcani rivestono tuttora importanza per la sicurezza dell’Europa occidentale? Con l’auspicio che sia solo una ipotesi, accenniamo al parere dell’analista geopolitico Daniele Santoro, il quale nel saggio I Balcani sono una bomba a orologeria, si spinge a prefigurare una nuova destabilizzazione in particolare in Bosnia-Erzegovina a causa delle tensioni sociali, e nel Kosovo, caratterizzata da contrasti tra kosovari e serbi, e dove l’Italia ( nell’ambito della missione Nato Kfor) contribuisce al mantenimento di un “ambiente stabile e sicuro” con un forte contingente tra militari, intelligence, team di monitoraggio. Missione che opera anche in altri paesi balcanici. Nell’articolo si sottolinea una crescente influenza nei Balcani occidentali, Serbia compresa, della Repubblica di Turchia, la quale avrebbe avuto un progetto di confederazione imperiale. Ipotesi, questa, che appare realistica se si potrebbero avere le mosse diplomatico-politiche messe in atto in questi anni dal presidente Erdoǧan nel Mediterraneo orientale e quelle aggressive nei confronti della regione del Rojava.

Per avere un’idea dell’attualità di questi giovani Stati e della loro fragilità occorre tornare indietro nel tempo, quanto meno ai primi decenni del secolo scorso. Le tensioni già presenti nei Balcani, principalmente tra Serbia e Impero austroungarico, vengono acuite dall’annessione della Bosnia all’Impero (1908) ‒ dopo tre secoli di dominazione turca e 30 anni di protettorato asburgico – , dalle politiche di controllo della zona da parte zarista e dalla creazione di uno Stato albanese ad opera degli Asburgo, a seguito della prima guerra balcanica contro l’Impero turco (1912-13). Gli accordi di pace a Londra ea Bucarest lasciarono domande in sospeso

Galleria sotterranea di Sarajevo

Stati ultranazionalisti ostili alle minoranze

Parallelamente al conflitto mondiale e in concomitanza con la crisi in Austria-Ungheria che porta l’Ungheria a dichiararsi indipendente nel 1918, nel 1917 nasce il progetto di un Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Furono cooptati a far parte della “Grande Serbia” il Regno di Montenegro e la Bosnia, dove ricchi proprietari terrieri musulmani costituivano il principale gruppo etnico-religioso, con molti privilegi rispetto ai serbi (in maggioranza cristiani ortodossi) e croati (in maggioranza cristiani cattolici ). A queste radicali trasformazioni, promosse dalla volontà di Gran Bretagna e Stati Uniti per depotenziare l’Impero degli Asburgo, si aggiungono le aspirazioni territoriali di Russia, Bulgaria, Romania, Grecia. Altri due elementi da sottolineare sono la paura diffusa del bolscevismo e le aspirazioni di predominio di Belgrado, corroborata dalla conquista del nord della Macedonia (Vardar), parte del Sangiaccato e la maggior parte del Kosovo. L’ideale di una Grande Serbia e la disomogenea composizione sociale bosniaca sono temi di grande importanza per la genesi della sanguinosa guerra durata dal 1992 al 1995 in Bosnia. Il Regno serbo-croato-sloveno, una “monarchia ereditaria democratica” diventerà Regno di Jugoslavia nel 1929, sino all’invasione tedesca del 1941, e sebbene teoricamente stabilisse equità tra tutte le sue componenti, di fatto la Serbia dominava l’amministrazione ed era detentore del potere. Iniziano in questa fase conversioni forzate al Cristianesimo ortodosso di cattolici e musulmani in Kosovo, diversità di trattamento verso musulmani non slavi, cioè albanesi e turchi, esodo di popolazione, violenze e deportazioni sporadiche che riguardarono i “turchi” (cioè i musulmani) dei Balcani, mentre la Sublime Porta agì violentemente verso i Greci e gli Armeni della zona sud-orientale della penisola (la storica Tracia). Da rimarcare che il Governo di Erdogan ancora si rifiuta di riconoscere il genocidio armeno.

Finita la “Grande Guerra”, oltre al potente Regno di Serbia- Croazia-Slovenia, si definisce una Grande Romania rimpinguata dalla Transilvania, Bessarabia (oggi divisa tra Ucraina e Moldavia), la regione storica della Dobrugia e Bucovina. Quest’ultima fu poi conquistata con la forza dall’Unione Sovietica che compì violenze sulle truppe rumene e sulla popolazione contadina che tentava di raggiungere la Romania. Si configurano così due grandi entità politiche necessariamente multietniche ‒ per sintetizzare il corposo studio di Schmitt (2021) – e apertamente ostili alle minoranze; si sommano problemi dovuti all’unificazione monetaria e fiscale, disomogeneità anche negli eserciti, disordini nelle amministrazioni con aggiunta di corruzione e stabilizzazione di polizie violente. In questa fase, mentre la popolazione contadina subisce la mobilitazione per la guerra e gli sradicamenti dai territori e vive un generale impoverimento, nasce il fascismo rumeno con milizie antisemite e la complicità della autoritaria Chiesa ortodossa, il movimento clerico-fascista ustàscia in Croazia, società segrete militari e parastatali , azioni terroristiche. La Grecia, dove si susseguono golpe e controgolpe, e la Bulgaria sono definiti “Stati pretoriani”, ma tutti i Paesi balcanici tra le due guerre furono Stati di polizia ultranazionalisti, con il conseguente proliferare di Servizi Segreti e spionaggio. società militari segrete e parastatali, azioni terroristiche. La Grecia, dove si susseguono golpe e controgolpe, e la Bulgaria sono definiti “Stati pretoriani”, ma tutti i Paesi balcanici tra le due guerre furono Stati di polizia ultranazionalisti, con il conseguente proliferare di Servizi Segreti e spionaggio. società militari segrete e parastatali, azioni terroristiche. La Grecia, dove si susseguono golpe e controgolpe, e la Bulgaria sono definiti “Stati pretoriani”, ma tutti i Paesi balcanici tra le due guerre furono Stati di polizia ultranazionalisti, con il conseguente proliferare di Servizi Segreti e spionaggio. 

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Sovvertimenti bellici e stragi

Il fragile assetto prebellico con le due entità maggioritarie, Romania e Regno di Jugoslavia, viene scardinato dalla Seconda Guerra Mondiale mentre le tensioni si trasformano in guerre civili più o meno violente. La Grecia viene economicamente destabilizzata dalla guerra e si delinea una separazione tra zone comuniste e non. Durante le operazioni belliche le alleanze di alcuni Stati con la Germania si fanno e si disfano (Bulgaria, Romania), l’Italia, cambiando fronte, acuisce il vuoto politico. Intere comunità vengono uccise o deportate mentre i nuovi confini dei Balcani sono a dir poco controversi. L’Erzegovina è teatro di violenze sulla popolazione musulmana non slava da parte di tedeschi, ustàscia croati, italiani e cetnici serbi; la Croazia degli ustàscia compie eccidi anche sui serbi e crea campi di concentramento.

Mentre il bolscevismo diventa una minaccia concreta in tutta la zona, la Germania nazista nel ’41 invade la Jugoslavia e la Grecia e assieme alla Romania da inizio all’attacco diretto in terra sovietica. L’Italia fascista, che aspira ad imporsi nell’Adriatico e quindi nei Balcani, aveva già occupato parti della Dalmazia, della Slovenia e della Grecia, reso l’Albania economicamente dipendente e, dal ’39, colonia italiana; instaura anche un protettorato in Montenegro nel ’41. Ma ancora prima l’Italia sotto l’autorità fascista istituisce una collaborazione con i cetnici bosniaci, croati e montenegrini – scrive lo storico Eric Gobetti in Alleati del nemico – interessati ad una pulizia etnica delle zone considerate serbe

«Si tratta di bande fatte affluire appositamente dalla Bosnia e dall’Erzegovina orientale, oltre che dal Montenegro…Nel corso di due anni e mezzo di occupazione le fonti italiane segnalano uno stillicidio di violenze contro civili inermi… I cetnici agiscono rapidamente…il loro unico scopo è distruggere, saccheggiare e uccidere per rendere inabitabile una data zona. Identificano il nemico essenzialmente nella popolazione di religione musulmana…La documentazione esistente dimostra come le autorità occupazionali abbiano, almeno in due casi, ufficialmente autorizzato i massacri» (Gobetti, 2021:123-125).

Nel ’42 mentre la popolazione musulmana in Bosnia viene massacrata dai nazionalisti serbi cetnici, decide di migliaia di civili croati e sloveni di qualunque sesso ed età vengono evacuati e internati in condizioni disumane e lasciati morire in campi di prigionia, primo fra tutti quello dell’ isola croata di Arbe, a seguito delle direttive del generale italiano Roatta, mentre i nazisti pretendono il trasferimento degli ebrei in Germania. (È da ricordare che questi e altri ufficiali italiani come Robotti, Pirzio Biroli, non furono mai condannati per i crimini di guerra nei Balcani.) Precisa Gobetti (ivi: 131): «Al momento dell’armistizio ad Arbe sono giunti 3577 ebrei, ma sono almeno 5000 gli ebrei salvati dalle autorità italiane in Jugoslavia», forse anche per strategie di realismo politico. Il successivo cambiamento di fronte dell’Italia portò alle estreme conseguenze gli scontrini tra partigiani. La vittoria comunista nei territori jugoslavi abitati da italiani fu conseguenza della tragedia immane, in tempo di pace, dell’esodo forzato di circa 300 mila italiani dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, con i campi profughi e la perdita di tutto, cui seguirono vendette e rese dei conti dei titini anche verso i civili. La maggior parte delle stragi però – secondo la storiografia recente – fu diretta verso collaborazionisti e non comunisti, non si trattò di una pulizia etnica. con i campi profughi e la perdita di tutto, cui seguirono vendette e rese dei conti dei titini anche verso i civili. La maggior parte delle stragi però – secondo la storiografia recente – fu diretta verso collaborazionisti e non comunisti, non si trattò di una pulizia etnica. con i campi profughi e la perdita di tutto, cui seguirono vendette e rese dei conti dei titini anche verso i civili. La maggior parte delle stragi però – secondo la storiografia recente – fu diretta verso collaborazionisti e non comunisti, non si trattò di una pulizia etnica.

Sull’occupazione italiana in Albania

A proposito dell’occupazione in Albania la testimonianza di uno dei generali lì comandato evidenzia l’irrazionalità del rapporto tra il comando militare e il governo centrale a Roma e la gravità della situazione in cui si trovavano i reparti italiani, sovraccaricati da una quantità di compiti . Nella relazione militare In Albania il generale di Divisione Carlo Tucci denuncia i continui dinieghi e i colpevoli silenzi del “Comando Supremo” verso qualunque richiesta gli fosse rivolta: mancanza di artiglierie, di automezzi blindati e di quadrupedi, invio di unità speciali dall’Italia.

Castello di Rozafa in Albania
«E poiché l’Albania con il Kossovo copre 36.000 km2 ( più che Piemonte e Liguria messi insieme) e vi dilagava la rivolta, non occorrono speciali studi di arte militare per dedurre che le forze di occupazione erano appena sufficienti per assicurare , con perdite , la loro sola esistenza… » (Tucci, 1943: 6).

La relazione descrive anche l’infiltrazione di comandi, uffici e truppe tedesche, che, in breve tempo, presero possesso dei campi di aviazione italiani, dello spazio aereo albanese, del controllo dei porti e di Durazzo. Il tutto con il beneplacito del Comando Supremo mentre – cosa ancora più grave – gli Ufficiali maggiori in Albania non vennero informati dello sviluppo e del cambiamento della situazione politica dell’Italia quale Stato belligerante!

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I Balcani ai popoli balcanici?

Parallelamente agli eventi bellici avvengono nei Balcani trasformazioni così radicali da far apparire utopico e del tutto tramontato l’ideale di un balcanismo liberale, che aveva avuto una matrice culturale e ideologica, e un grande scrittore bosniaco, il Nobel Ivo Andrić, portavoce degli ideali panjugoslavi . Lasciando da parte il caso particolare della Grecia, la vittoria comunista ottenuta con le armi diventa realtà in Jugoslavia, Albania, Bulgaria e Romania, i partiti democratici vengono vietati e tutti hanno in comune decenni di terrore e dittature. Soprattutto in Bulgaria e Romania ‒ che non hanno mai avuto solide tradizioni democratiche e dove la fortissima influenza sovietica permea l’esercito ei Servizi segreti ‒ vi sono processi farsa, brogli elettorali, deportazioni.

Nel ’48 le divergenze tra Stalin e Tito creano per alcuni anni un’ulteriore divisione tra gli Stati balcanici. Queste nuove realtà non fanno sparire i perenni conflitti etnici, semmai creano nuovi e drammatici scenari interni con una sistematica persecuzione degli oppositori politici. La successiva vita blindata di questi Paesi coartati su modello sovietico, la guerra in Bosnia dei primi anni ’90 e le tragiche vicende di confine tra Italia e Jugoslavia richiederebbero capitoli a parte. Qui riportiamo soltanto alcune frasi significative del fatto che può cambiare il punto di vista ma sentimenti dolorosi vi furono, ed esistono ancora, sia nei profughi, sia in chi ha scelto di restare. Scrivere in Bora. Istria, il vento dell’esilio Annamaria Mori, esule bambina da Pola nel ’36: 

«Non è vero che io e trecentocinquantamila esuli istriani eravamo, eravamo borghesi e fascisti. Non è vero che tutta l’Istria era slava e doveva tornare alla Jugoslavia. Non è vero che tutta la mia gente era nostalgica e irredentista» (2018:15).

Nello stesso libro Nelida Milani Kruljac, anche lei nata a Pola, ma lì rimasta

«Che ne sanno gli esuli del nostro esilio interno? Garantito unicamente dallo spazio casalingo….amarezze da patire, orgoglio da salvare, conflitti da superare e di tensioni, di contraddizioni, di sofferenza e di coraggio» (ivi: 19).

E parla di un «lungo e inutile confine impastato di nuovi afrori coloniali, due tagli tra Slovenia e Croazia… Questo è il nuovo segno speculare della distinzione dell’identità nazionale di questi nuovi Stati» (ivi: 20-21).

Il paradigma di Sarajevo

Oggi la città accoglie un gran numero di turisti. Si va a visitare la Vijećnica, quello che fu Palazzo del Municipio, poi trasformato in biblioteca nazionale durante il socialismo; scrive Eric Gobetti in Sarajevo Rewind 

«…la Vijećnica viene colpita da un bombardamento nel 1992 e, nonostante l’intervento di decisioni di cittadini, l’enorme rogo distrugge gran parte dell’immensa raccolta letteraria conservata nel suo ventre ferito…esprime le mille contraddizioni di Sarajevo, di una città che racchiude in sé il mondo intero…Sarajevo, per ragioni sociali, geografiche e psicologiche, è luogo d’incontro di culture differenti…ma anche di scontro» (2016: 124-125).
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Assieme ad antichissimi incunaboli di ebrei sefarditi bruciarono testi degli Slavi del Sud e degli europei dei Balcani. Sarajevo è diventata un luogo simbolo. Durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, fu sottoposta alla prova durissima dell’assedio più lungo della storia moderna (tre anni e 8 mesi) e gli stati d’animo dei suoi abitanti – ne parla lo storico Duccio Balestracci in Stato d’assedio  sono stati studiati e diventati un paradigma per tutti gli stati ossidionali di ogni luogo «…nel caso del già ricordato assedio di Sarajevo si sviluppa una vera e propria sindrome neuropsichiatrica definita, appunto, sindrome di Sarajevo» (Balestracci, 2021: 143).

Quali prospettive? 

L’instabilità dei Paesi balcanici oggi significa anche che si trovano in un limbo. Il loro percorso di adesione all’Unione Europea è ritardato dalla incompleta coincidenza della loro realtà socio-politica e valoriale ai parametri dell’Unione, anche se vi sono specificità di sviluppo economico e si può solo parlare di un mosaico con tanti unicum. L’invasione da parte della Federazione russa dell’Ucraina, che attualmente è solo “candidata”, non può essere valutata con l’unico criterio della definizione dei confini nelle regioni contestate a maggioranza russofona, ma a pesare c’è anche la volontà del Cremlino di annientare il progetto di risposta all’Europa per tutti gli Stati vicini. Non c’è soltanto da fare i conti con la storica interconnessione dell’area con l’ex Urss, ma da tenere presente l’attuale dipendenza dai rifornimenti energetici e dalla fornitura di armi, in misura differente per i vari Stati e la presenza di capitali russi in importanti settori di queste economie. I posizionamenti politici non sono uguali nel corso di questa guerra e potrebbero diventare decisive le scelte politiche di allineamento, con nuove e pericolose prospettive di instabilità della zona.

Dialoghi Mediterranei , n. 60, marzo 2023
Nota
[1] «Nonostante negli ultimi anni i paesi dei Balcani Occidentali abbiano delineato una nuova strategia basata sull’idea di una precisa “identità balcanica”, ponendosi, nel percorso di integrazione europea, come un’entità compatta capace di portare avanti le proprie istanze in maniera coesa…la regione si compone di realtà diverse tra di loro, sia per grado di sviluppo economico e democratico, sia con riguardo allo stadio che i singoli paesi lavorano all’interno del percorso di adesione all’Unione Europea. Il conflitto russo-ucraino, esercitando sui paesi un diverso impatto economico e sociale, ha rimarcato tali discrepanze, dimostrando quanto in realtà la regione sia composta da voci differenti non sempre in armonia e facendo emergere il dualismo di una regione chiusa all’interno dell’ Europa, ma al di fuori dell’Unione Europea.»
Riferimenti bibliografici
Duccio Balestracci, Stato d’assedio , Soc. ed. Il Mulino, Bologna 2021
Federica Cravero, I braccianti dei vigneti portano nelle Langhe un angolo di Macedonia , La Repubblica Torino 20.1.2023
Giorgio Dell’Arti, Le guerre di Putin , La nave di Teseo editore, Milano 2022
Sabina de Silva, L’impatto della guerra in Ucraina sui Balcani Occidentali, a cura del CeSpi, n.98 giugno 2022
Eric Gobetti, Sarajevo Rewind ( nell’originale Rew ind ) Cent’anni d’Europa , Miraggi Edizioni, Torino 2016
Eric Gobetti, Alleati del nemico. Occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Editori Laterza, Bari-Roma 2021
Annamaria Mori, Nelida Milani, Bora. Istria, il vento dell’esilio , Feltrinelli Milano 2018, ebook 2021
Daniele Santoro, I Balcani sono una bomba a orologeria , in Il mare italiano e la guerra , «Limes», 8/2022
Oliver Jens Schmitt, I Balcani nel Novecento. Una storia post imperiale , Ed. il Mulino, Bologna 2021
Carlo Tucci, In Albania nel settembre 1943. L’airone, Roma. Relazione estratta dai documenti annessi all’opera di E. Canevari La guerra italiana-Retroscena della disfatta…

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Eugenia Parodi Giusino , laureata in Filosofia, si è sempre occupata di problematiche sociali, di ingiustizie e soprusi per motivi razziali e differenze culturali. L’analisi dei Paesi “in via di sviluppo” e il razzismo negli Usa è stato l’oggetto della sua tesi. Ha insegnato materie letterarie ad Orano, in Algeria, e ha lavorato come redattore ed editor in diverse case editrici a Milano, Padova, Roma (Feltrinelli, Laterza, Arsenale Cooperativa editrice, Liviana, Piccin). E’ stata presente come editor e autrice di articoli e recensioni nella redazione della rivista  Per salvare Palermo  della Fondazione omonima e in riviste on line, oltre che sul suo blog personale formertime and abroad. Dal 2017 ha pubblicato articoli sulla rivista periodica <<Dialoghi Mediterranei>>. Vive a Palermo.


			

Trovata madre per 40 giorni

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Vorrei raccontare qualcosa capitato a me o per  meglio dire, che ho cercato. E’ una storia di grande illusione e delusione quella in cui in cui per circa 40 giorni mi sono presa cura di un bambino ucraino adolescente.

Ci pensavo da circa due anni, avevo saputo che a coppie, famiglie e anche a persone single vengono affidati, per il periodo estivo e per le vacanze di Natale, bambini ucraini. In alcuni paesi vicino Palermo, dove vivo, ci sono associazioni che si occupano di organizzare questi soggiorni di piccoli che vivono in istituti, perché orfani o perché con famiglie non adatte a tenerli, per indigenza, alcoolismo o altro. Avevo visto una collega  portare in ufficio il bambino che ogni estate e ogni Natale veniva a vivere con lei e il marito e mi sembravano entrambi contenti e divertiti. Cominciai a frequentare l’associazione che aveva sede in provincia per acquisire informazioni e  imparare il più possibile su un mondo per me sconosciuto. Mi sembrava assurdo non mettermi a disposizione di un piccolo essere umano che certamente non era stato baciato dalla fortuna e potergli dare qualcosa.  Qualcosa alla fine sarebbe rimasto con lui, con lei. Avrei preferito una bambina, pensavo di otto o nove anni.

Per i “genitori”: carte da firmare, somma per acquisto biglietto aereo, foto, storia del bambino, piccolo dizionario ucraino-italiano, vademecum comportamento anche in casi emergenza, regole da seguire, usi e costumi, storia del Paese ecc. Bambine non ce ne erano più, dissero mentendo, e mi proposero V., un adolescente di 12 anni e mezzo. Beh, ma certo.

Anche se al racconto di questa storia andrebbe dato uno spazio molto più lungo di un post e un tono serio (credo) io lo narrerò come posso, con il mio stile (se qualcuno fosse interessato a conoscere particolari può scrivermi un commento o farmi una e-mail).

1° giorno: V. arriva in aereo con aria allallata (rallentato, poco attento) e poi dorme tutto il giorno, sono preoccupata   2°giorno: si scopre che non mangia quasi niente e odia il pesce, il mio cibo preferto  dal 2° giorno fino all’ultimo: muso appena sveglio per un paio d’ore   5° giorno: in piscina, felice, dopo il primo tuffo e il mio ATTENTO! sbatte la testa nel bordo piscina, terrore, corsa in ospedale, ore di attesa, scopro che la collega con altro bambino ucraino ha paura del sangue, è una mammola e non mi aiuta. Accorrono – almeno questa volta – in ospedale maestre e supervisor ucraino serissimi e con passo militare,… spaventati.  V. se la cava con tre o quattro punti in testa, ma non potrà fare il bagno per 20 giorni né giochi movimentati, per fortuna ho due cani, giardino e la bicicletta  6° giorno: inizia la disperata ricerca di persone, amici, parenti, vicini di casa con bambini di quell’età, trovo solo un’amica con bambina coetanea ma lui non ci vuole stare perchè è femmina   10° giorno: telefono all’associazione per avere indirizzi di altre famiglie affidatarie per far socializzare V. con bambini ucraini ma mi lasciano al mio destino    15° giorno: inizio la  compilazione di un calendario con annesse attività in programma per V., giorno per giorno, distinto in mattina, pomeriggio, sera. Ogni notte, sola nella stanza, depenno il giorno trascorso 16° giorno: mi tiene il muso per due giorni e non parla perché non sono rimasta con lui ad una gita faticosissima, ero riuscita ad andare finalmente  dal parrucchiere  17° giorno: via i punti dalla ferita e si ricomincia, sino all’ultimo giorno di ospitalità, con calcetto, mare, giochi tipo lunapark, gommone, bowling, minigolf, festicciole, clown, wùrstel, passeggiate in moto con il mio ex e in vespa con mio fratello, monopattino, aereo telecomandato, corse in bici con gli amichetti, pizzerie, uscite di mattina, di pomeriggio e di sera e via all’infinito (con il supporto di continui prelievi al bancomat). Prima di dormire, la sera, il bacetto della buonanotte, che gli piaceva tanto.

Le consegne che vengono fatte ai bambini dalle organizzazioni indicano loro di non parlare mai della famiglia di origine, a stento sono riuscita a capire che la madre lo aveva in pratica abbandonato dai nonni per rifarsi una famiglia, che aveva un fratellino cui voleva bene, che il nonno era morto ed il gatto era scappato via. Il padre non si poteva nominare. Trovo questa regola molto crudele anche per i genitori affidatari che vengono lasciati nella più totale ignoranza della vita dei bambini precedente a quella in istituto. Quando V. è partito lacrime vere per tutti e se si è portato via subdolamente la catena d’oro regalatami da mio padre ho pensato che gli sarebbe servita e che era meglio che l’avesse lui. Voglio pensare che l’abbia ancora e si ricordi così di me. Quanto alla filantropica associazione se qualcuno fosse interessato posso fornire quasi una partita doppia dei conti che avevo fatto con tutti i dettagli sull’ammontare del  guadagno, anche in regalìe, per ogni viaggio di bambino dall’Ucraina alla Sicilia per: il presidente siciliano dell’associazione, i solerti organizzatori ucraini, i direttori degli istituti, l’interprete capo e la boss di tutto, griffata sino alla punta delle orecchie. Ma questo è quello che è successo a me e so che tanti rapporti analoghi hanno avuto un esito migliore.

I Greci del Ponto.Una tragedia poco conosciuta in Italia

2 pensieri su “Trovata madre per 40 giorni”

  1. francesca ModificaÈ da apprezzare il coraggio e la leggerezzacon cui si è intrapesa questa avventura.un gesto da cui è escluso ogni desiderio di “possesso”, come putroppo accade in molte esperienze di adozione. In questo caso il ragazzo è stato semplicemente accolto con simpatia e generosità, senza chiedere nulla in cambio semsemplPiace a teRispondi
    1. eugeniapa Modificagrazie veramente. SI infatti lo spirito è stato proprio questo, dare qualcosa ad uno sconosciuto sapendo che era una cosa a tempo e dall’esito buio.“Mi piace”Rispondi

Dentro un piccolo romanzo giallo la grande storia della Sicilia rurale

Pubblicato il 1 gennaio 2022 su Dialoghi Mediterranei, periodico dell’Istituto Euroarabo

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di Eugenia Parodi Giusino

In letteratura è sempre stato forte il fascino esercitato sui lettori dal mistero, dalla suspense, e tanto più di questi tempi si può dire che i romanzi gialli conoscono un successo straordinario. La maggior parte degli autori crea dei prodotti con lo scopo di intrattenere, di captare l’attenzione del lettore e di tenerlo avvinghiato alla trama, per puro divertimento, come innocua distrazione dalla realtà quotidiana. Qualche altra volta – ci sono stati degli esempi sublimi, come il primo romanzo di Umberto Eco o, ancora prima, quelli di Leonardo Sciascia – chi scrive si serve di un intreccio per descrivere realtà sottostanti, come se ci fossero più trame sovrapposte, e contemporaneamente offre al lettore spunti di riflessione su un particolare momento storico-politico e culturale o sulle dinamiche sociali rappresentati. 

Né luna né santi di Santo Lombino (Navarra edizioni, 2021) è un piccolo libro che si presenta come un avvincente giallo rivelando non l’identità degli assassini di un parroco di campagna ma, attraverso tante microstorie quante sono i personaggi, la storia di un paese dell’entroterra siciliano, che può essere letta come una metafora della Sicilia tutta. Siamo nel 1920, la guerra è da poco terminata e in un borgo dal nome immaginario viene ucciso don Innocenzo Misseri, parroco benvoluto e apprezzato dagli abitanti, da quasi tutti gli abitanti. La trama fa riferimento a un fatto realmente accaduto, l’uccisione dell’arciprete Castrenze Ferreri avvenuta a Bolognetta nel maggio del 1920 davanti la sua abitazione, e successivamente del sacrestano Rosario Di Pisa, entrambi testimoni involontari di un delitto di mafia.

Il fatto – ci racconta l’autore, attento studioso di storia locale ‒ non fu per niente un avvenimento isolato in Sicilia negli anni cruciali dal 1919 al 1923 e cita alcuni tra gli omicidi di religiosi, a Ciaculli, Gibellina, Casteldaccia, San Giuseppe Jato, Resuttano, uccisi per essere stati attivi nel contrasto alle cosche mafiose o nella fondazione di cooperative di consumo o forme di credito per i contadini nullatenenti, al fine di contrastare l’usura. Il canonico del duomo di Monreale Gaetano Millunzi, letterato, storico e poeta, che fu tra i fondatori della Cassa Rurale dei Prestiti, dopo avere subìto intimidazioni e atti vandalici fu ucciso nel suo vigneto, molto probabilmente – Lombino fa dire ad un personaggio del libro – per essersi opposto al controllo mafioso della distribuzione dell’acqua.

Renato Guttuso, Marsigliese contadina, 1947

La forma narrativa è quella di un diario scritto da un giovane ferroviere che mette insieme una serie di indizi, di cui è casualmente testimone o di cui viene a conoscenza, tentando di gettare luce sul misterioso omicidio; ma da subito il lettore intuisce che si tratta di un pretesto funzionale alla descrizione di un mondo, di una intera comunità rurale soggiogata dalla miseria e costretta all’emigrazione, che deve fare i conti su base locale con poteri antichi collusi con strati emergenti e di cui avere paura, e a livello più alto con le decisioni politiche e le promesse disattese di un governo lontano.

Sul fatto criminoso sono più le ipotesi e le versioni riportate che una risoluzione certa. Alcuni paesani hanno sentito le grida della vittima, altri degli spari, qualcun altro ha visto ombre muoversi nell’oscurità a quell’ora e le ultime, confuse parole del religioso morente conducono ad un nome, anzi a due, ma anche su questo vengono avanzati dubbi perché il povero prete non era del tutto in sé.

Chi poteva volere tanto del male a don Innocenzo che, al di là di un carattere piuttosto volitivo ed esuberante, si era sempre prodigato in favore dei suoi fedeli? Per cercare spiegazioni o indizi vengono introdotti numerosi personaggi che confondono ancora più la scena, perché la loro esistenza serve all’autore per fotografare la realtà di un paese dove le strade quasi non conoscono illuminazione, dove se qualcuno viene ferito a morte deve attendere che un medico arrivi dopo ore a dorso di mulo da un paese vicino, dove il lavoro agricolo viene praticato da braccianti con mezzi del tutto primitivi e capita che un’intera famiglia venga ritenuta capace di «spargere di notte il veleno della spagnola per le strade del paese». Non a caso chi osserva e descrive la vicenda è un ferroviere, considerato che l’unico elemento che porta notizie e un po’ di vivacità in questo ambiente stagnante è proprio il treno, sul quale molti paesani saliranno per recarsi a Palermo dove si svolge il processo all’unico imputato per i delitti. E poco importa se dovranno testimoniare in modo lacunoso e fuorviante, ricompensati dall’offerta di un panino, di una gassosa e sigarette offerti dal capo di un gruppo di “mala gente”.

Renato Guttuso, Occupazione delle terre incolte, 1947

Addentrandosi in questo film ci si avvicina ai veri protagonisti e al tema centrale: la mancata riforma agraria, legittima aspirazione rivendicata da masse di contadini senza terra che avevano combattuto nella terribile guerra di trincea e dove avevano maturato una coscienza collettiva. A loro la terra era stata ufficialmente promessa, anche come risarcimento. Nella Storia della Sicilia, vol III, Francesco Renda riporta la dichiarazione fatta alla Camera dal Presidente del Consiglio Salandra: 

«Dopo la fine vittoriosa della guerra, l’Italia darà la terra ai contadini con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo aver valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una situazione di indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla Patria ai suoi valorosi figli». 

Anche se ‒ per lo storico siciliano ‒ «la formula “la terra ai contadini” lanciata per prima dal Partito Socialista e in modo particolare dalla Federazione dei lavoratori della terra, riscosse grandi consensi, anche perché era sufficientemente elastica e imprecisa». Al fine di avvalorare l’intenzione di procedere, a guerra finita, ad una riforma agraria, fu istituita nel 1917 l’Opera Nazionale Combattenti, che divenne il punto di riferimento delle numerose associazioni di combattenti e reduci. Tale blocco sociale – afferma Renda ‒ era «un raggruppamento interclassista politicamente ambiguo ed oscillante» non avendo una visione organica della società, ma come unico programma politico quello di ottenere un riconoscimento per chi aveva combattuto. Sempre secondo Francesco Renda, 

«Il movimento contadino del primo dopoguerra fu senza dubbio un grande fatto sociale e politico…che ebbe incidenza di portata durevole ma…l’agitazione del 1919-1921 fu diversa da quella del 1860 e del 1893, perché non fu egemonizzata dalle forze più avanzate della società nazionale». 

Proposte di redistribuzione fondiaria furono presentate anche dalla nuova formazione politica del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, fondato nel 1919, che, nel portare avanti temi generali avanzati come il disarmo, il voto alle donne, e importanti riforme in senso democratico dello Stato, aveva al suo interno forze contrastanti; avrebbe dovuto mettere insieme la difesa degli interessi di conservazione agraria con le aspirazioni contadine e popolari. E a questo proposito Renda osserva: 

«Naturalmente il prete di Caltagirone non era favorevole al collettivismo agrario propugnato dai socialisti e non era neppure consenziente con la propaganda del ruralismo di guerra, poiché, a suo giudizio, la rottura del latifondo non doveva avere altro fine che l’incremento della piccola e media proprietà». 
Renato Guttuso, Contadini al lavoro, 1950

Nel romanzo di Santo Lombino le rivendicazioni popolari sono rappresentate da un personaggio, il sergente Antonello Mazzara, che ha una precisa coscienza e, in una occasione ufficiale, si rivolge coraggiosamente al Sindaco per chiedere una solidarietà fattiva e non di facciata. É forse l’unico ad accorgersi con preoccupazione che come controffensiva alle richieste popolari sono iniziati omicidi politici di sindacalisti e attivisti da parte dei mafiosi e dei latifondisti, mentre le forze dell’ordine «fanno molti arresti». 

In un recente convegno tenutosi nella Arcidiocesi di Monreale sulle lotte sociali e violenze dopo la Prima guerra mondiale sono stati ricordati gli omicidi di parroci coraggiosi, di presidenti di cooperative e attivisti in difesa dei contadini. Tra queste vittime il sindacalista Giovanni Orcel, segretario generale della Fiom, assassinato nel 1920. Fondatore dalla Lega dei Lavoratori si impegnò strenuamente per il miglioramento delle condizioni di vita dei salariati, per il riconoscimento del sindacato e, chiaramente ispirandosi a ciò che avveniva allora in Unione Sovietica, promosse l’unione di operai e contadini in un momento in cui questo faceva paura persino ad una parte dei socialisti, oltreché al resto dell’Italia.

Nella prefazione al libro di Philippe San Marco dal titolo Restituite la terra! I conti e i contadini senza terra, imperniato sulle lotte contro la grande proprietà in particolare nel paese di Villafrati, lo storico Giuseppe Oddo afferma che «i contadini senza terra di Villafrati sono stati in ogni epoca tra i più combattivi dell’Isola» e per dare un’idea della sopraffazione cita alcuni risultati di una delle prime inchieste parlamentari, quella affidata al professor Giovanni Lorenzoni, insigne economista agrario, pubblicata nel 1928: 

«Soltanto due latifondi del conte di San Marco occupavano il 54,5% della superficie agricola del territorio comunale. Nel rimanente 46,5% non c’era una sola ara di terra libera dai pesanti canoni enfiteutici (censi) che si pagavano al conte di San Marco. E i censi gravavano inoltre su tutte le case di abitazione. I salari dei braccianti erano tra i più bassi dell’Isola…». 
Salvatore Profeta, Ritratto di Gaetano Millunzi

Alla drammatica condizione dei contadini poveri siciliani, quasi tutti ex combattenti, l’Italia liberale, sospinta anche dalla mole di occupazioni di terra in molte regioni, con corrispettivo di scioperi e occupazioni di fabbriche degli operai del nord Italia provò a rimediare con alcuni decreti, il Visocchi (1919), Ministro dell’Agricoltura allora, e i successivi Falcioni e Mauri, che riguardavano la concessione e la successiva assegnazione di terre incolte o mal coltivate alle cooperative contadine. A questo proposito e per comprendere quanto lo stesso decreto Visocchi fosse insufficiente va ricordato che la terra sarebbe andata «in occupazione temporanea» alle associazioni di «contadini che potevano coltivarla», il che voleva dire che avessero i mezzi e gli strumenti; una contraddizione evidenziata con parole semplici e chiare già decenni prima da Sidney Sonnino (I contadini in Sicilia, Firenze 1877, in Il sud nella storia d’Italia, Antologia della questione meridionale acura di Rosario Villari, Laterza 1961), che pur essendo un liberale conservatore, indirettamente fa capire quanto fosse importante la fondazione di casse rurali, tanto osteggiate dai detentori della proprietà e dalla loro mano armata, che tolse di mezzo chi provava a costituirle. 

«Il tarlo roditore della società siciliana è l’usura…il contadino siciliano è quasi costantemente indebitato…l’usura rende impossibile al contadino siciliano ogni risparmio…l’ordinamento feudale durò intiero e rigoglioso fino al 1812, l’abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale perché i feudi, all’infuori delle sole terre che erano state regolarmente date in enfiteusi, furono lasciati in libera proprietà agli antichi baroni e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti e quindi ridotto di fatto a maggior schiavitù di prima». 

Se uno dei personaggi del libro di Lombino esprime delusione per il fatto che «i noti decreti Visocchi nel 1921 non erano ancora del tutto rispettati», a togliere dalle “teste calde” qualunque idea di riscatto o di rivolta pensò il fascismo che nel 1923 annullò i decreti.  

Questo giallo rurale può anche essere una lettura di divertissement ma, secondo il volere o il sentimento del lettore, può essere un conciso romanzo storico nel senso che la tormentata storia politica e sociale di quegli anni e in quel contesto viene fuori in modo chiaro dai dialoghi, dai comportamenti, dai sogni e financo dall’abbigliamento dei personaggi. E l’autore fa bene a farci ricordare quali vicende ha attraversato la maggior parte della popolazione delle campagne siciliane e meridionali.   

Dialoghi Mediterranei, n. 52, gennaio 2021

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Intervista alla scrittrice curdo-armena Maha Hassan

istitutoeuroarabo.it/DM/cittadina-francese-curda-un-po-armena-e-anche-ebrea-dialogo-con-la-scrittrice-siriana-maha-hassan/Comitato di Redazione1 marzo 2020

Cittadina francese, curda, un po’ armena e anche ebrea. Dialogo con la scrittrice siriana Maha Hassan

Maha Hassan al centro, Palermo 2019 (ph. Parodi)

di Eugenia Parodi Giusino

La città di Palermo, con gli incontri La parola alla Siria. Voci creative di donne in esilio, lo scorso dicembreha voluto dare visibilità ad alcune artiste siriane che si trovano lontane dalla loro terra, là dove non è stato loro possibile esprimersi con la libertà di cui hanno bisogno tutti, e ancor più gli intellettuali e gli artisti. Questi, con il loro pensiero e lavoro possono esprimere contenuti, idee, modelli non omologati, audaci e portatori di una visione della vita che forse non può ancora proporsi e radicarsi nella società di un Paese arabo che ha sofferto anni di guerra e distruzione, assalti terroristici, e regimi dispotici. Gli esili forzati di milioni di siriani, non sono affatto finiti, e un numero considerevole e imprecisato si trova in campi profughi sparsi ai margini dell’Europa, in un limbo esistenziale e materiale insopportabile, che preclude loro sia di entrare in Europa sia di tornare in patria. O è stato costretto a riparare nei vicini Paesi.

La condizione di questi individui e la recente storia della Siria sono l’oggetto di un saggio a più mani: Esilio siriano (Exil syrien, ed. A. Guerini e Associati Spa, Milano 2016) ‒ a cura di Marina Calculli, specialista in geopolitica della regione libanese e siriana e dello scrittore e attivista Shady Hamadi. Ha scritto Marina Calculli: «Chi fugge dalla Siria non è solo un soggetto politico, ma anche uno strumento politico…si analizzerà come lo spostamento di milioni di siriani, sia verso l’interno sia verso l’esterno della Siria, non sia stato soltanto una mera conseguenza inattesa della violenza esplosa nel Paese dopo il 2011, bensì parte di una vera e propria strategia, condotta in larghissima misura dal regime di Bashar al-Asad e del suo principale alleato, la Russia…Il regime, sotto la pressione dell’avanzata dei gruppi ribelli, ha in parte perduto, ma in parte anche abbandonato diverse fasce di territorio settentrionale e centro-orientale della Siria…» contemporaneamente alienando da alcune zone, quelle che ritiene lo “Stato utile” o la “Siria utile”, la parte della popolazione a lui contraria.

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Alla scrittrice curdo-siriana Maha Hassan, esule da quindici anni a Parigi, invitata a Palermo per La parola alla Siria abbiamo rivolto alcune domande. Maha Hassan è una scrittrice, giornalista e attivista curdo-siriana. Nata ad Aleppo e con studi giuridici alle spalle, si è affermata come scrittrice di romanzi nel suo Paese già negli anni Novanta. A partire dall’anno 2000 è stata perseguitata dal regime perché nelle sue pagine si leggeva di argomenti tabù come religione, sesso e politica e le è stato proibito pubblicare. Nel 2004, all’inasprirsi delle violenze contro i curdi, Maha Hassan ha lasciato la Siria e si è trasferita a Parigi. Nel 2005 ha ricevuto da Human Rights Watch una borsa di studio Hellman/Hammett per gli scrittori perseguitati. Continua a scrivere e a difendere i diritti delle donne nella società araba. In italiano è stato tradotto il suo romanzo Tamburi d’amore.

Vous êtes née en Syrie dans une famille kurde; une de votre grands-mères était arménienne, persécutée en Turquie, et pour rester en Syrie, elle a toujours dû cacher sa véritable identité. Vous apportez donc avec vous des éléments de cultures et de religions différentes, et la Syrie elle-même a toujours été un carrefour, un affrontement-rencontre de différentes origines religieuses et ethniques, avec une société non homogène. “Exil syrien” retrace l’histoire politique récente de la Syrie et les exilés syriens, les soulèvements populaires pacifiques, les actions et violations des différents acteurs et gouvernements concernés, les efforts laborieux de la population      pour sortir de l’abîme de la guerre. Hamadi se demande: «Loin ou toujours chez eux (watan), les Syriens se demandent: “Qui sommes-nous, aujourd’hui”? La question de l’identité syrienne devient fondamentale car la guerre a mis en évidence la fragilité de la société ». Pour vous, qui vivez par choix loin de votre pays, la définition de votre identité est-elle un sujet difficile ou est-elle structurée par l’élaboration de valeurs universelles et culturelles?     

«Je suis écrivaine; c’est ça mon identité définitive que j’ai construite pendant ces années vécues en Syrie et en France. Je suis citoyenne francaise mais je suis aussi kurde. Je suis, peut- être, un peu arménienne et pourquoi pas aussi juive. Je passé une année dans la maison d’Anne Frank. Mon roman parraîtra bientôt sur mon expérience douloureuse dans la maison d’Anne à Amsterdam, là où j’ai découvert des points communs entre les juifs et les Kurdes et entre l’exode de juifs et celui des syriens pour cause de guerre. Je pense que je suis née en Syrie, decendante d’une grand-mère arménienne, d’une autre kurde, et d’une arabe, et que je suis venue vivre en France pour vivre de multiples expériences parfois paradoxales et contradictoires. C’est pourquoi, aujourd’hui, je ne suis qu’une écrivaines. C’est ma seule identitié».

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Noam Chomsky, philosophe, scientifique et activiste politique américain toujours cohérent avec ses idées, même si elles sons politiquement inconfortables, souligne le concept selon lequel les intellectuels, précisément parce qu’ils sont “privilégiés” ‒ en tant qu’utilisateurs et acteurs culturels ‒ ont plus d’opportunités que les autres et donc encore plus de responsabilité. «C’est à ce moment-là qu’un individu doit choisir et utiliser le privilège pour remettre en question l’État», écrit-il dans un essai de 2011, qui a été republié pour la dernière fois dans La responsabilité des intellectuels (Ponte delle Grazie, 2019). Cependant, il faisait référence à une minorité dans une démocratie occidentale. Vous avez choisi, il y a de nombreuses années, d’exercer pleine liberté d’expression à travers la fiction, le roman, et pour cela vous avez cependant dû quitter la Syrie, le pays où vous êtes née. Y avait-il quelque chose de dangereux et d’inacceptable dans vos écrits? Comment avez-vous pris la décision difficile de partir?

«Ecrire pour moi est une affaire de naissance. Je suis née pour raconter, je répète partout cette phrase. Ont ne peux pas raconter sans liberté. Le fait que je sois née en Syrie, fille d’une famille kurde, mais elle ne parlant que l’arabe, en raison du régime nationaliste arabe despotisque, niant toute liberté d’expresion pour le peuple syrien, m’a mis constamment en danger. La premiere fois, j’ai été interdite de publier mon deuxieme roman, puis, en 2004, quand la “révolution kurde” s’est declanchée, j’ai été interrogée par les services de renseignement en tant d’écrivain kurde. C’est pourquoi j’ai eu peur. Je n’ai pas eu le choix, j’ai été obligée de quitter la Syrie pour sauver mon écriture et pouvoir soigner cette raison de vivre et les faire grandir comme un arbre, dans cet exil choisi et aimé».

Il y a une image très efficace et vivante que vous suggérez sur la liberté.« Dans notre pays – vous avez écrit ‒ la liberté est comme un produit frais à déguster, quand pour vous (pour les pays occidentaux, ndr) il a la saveur et la consistance d’un aliment en conserve ». Veuillez nous en dire plus.

«C’est des paroles dites par Rima, le personnage principale de mon roman Tambour d’amour, traduit en italien. Rima vivait en France où la liberté est un concept évident, après les longs combat du peuple Français pour realiser ce sens. En revenant en Syrie, Rima sentait un autre goût de la liberté, une liberté fraiche, inédite, inconnue, car les Syriens ont vécu lontemps sans pouvoir s’exprimer.

Sfollati nel nord della Siria verso Tel Temer (ph. Unicef Delil Souleiman)

Malgré la longue histoire de trahison et d’abandon des Kurdes, je sens, au fond de moi, que justice sera faite un jour. Peut-être que cela ne sera pas rapide mais je suis convaincue que l’intelligence internationale va voir les Kurdes comme un peuple qui mérite ses droits; je crois au futur. Comme citoyenne francaise d’origine kurde, je sais qu’il y a en France, pas mal de gens qui soutiennent la casue kurde. Je pense que la France et la communauté européenne peuvent jouer un grand rôle pour aider à la naissance d’un état ou d’un statut plus stable pour les Kurdes, y compris au Moyen Orient».

Le syrien Mohammed Dibo, exilé à Beyrouth, en Exil syrien avait écrit «Certains intellectuels ont créé une nouvelle culture, née aujourd’hui en Syrie, qui s’exprime mieux dans le domaine créatif, à travers la poésie, les romans, le théâtre, les témoignages, le peinture, caricatures». À votre avis, bien qu’il existe des zones en Syrie, avec la présence de milices non gouvernementales y compris des groupes terroristes, qui continuent d’être bombardées par des avions russes et gouvernementaux (Idlib, «Ansamed news» du 20/12/19) , et compte tenu des récents et ruineux actes de guerre en Irak aux mains des États-Unis et de l’Iran, vous pouvez toujours espérer que les phénomènes culturels mentionnés par Dibo augmenteront, deviendront des points de référence pour une renaissance de la culture syrienne qui a connu par le passé d’énormes plaintes, et des violences de toutes sortes, dirigées contre ses représentants.

«Le jour où je réponds à ces questions, il y a deux filmes syrienes nomment pour les Oscars. Peut-être un film sera en finale. Le cinéma du régime n’a jamais pu arriver à cette place. Le fait que les syriens insistent pour la liberté et la démocratie, cela a vraiment créé une nouvelle vague d’expression et libèrer l’art et la culture de ses prisons intérieures. Nous vivions comme dans le monde de 1984, où Big Brother nous surveille, jusque dans nos rêves. Aujourd’hui, malgré le mal de la guerre, les pertes, la mort, nous sommes plus libres au fond de nous. J’aime bien parler d’expression : la nouvelle vague culturelle fera suite à cette guerre, comme les grands mouvements artistiques mondiaux, le Surréalisme par exemple, qui sont nés à côté de la guerre.

I becchini della Siria

Je ne dis pas cela éxactement, je ne suis pas une femme politicienne, je suis écrivaine et plus précisemment, romancière. J’utilise mon imagination en la melangant à la réalité. Mais j’ai vu de mes propres yeux les islamistes en Turquie. Cela n’est pas un secrêt; il y plein d’articles qui parlent du soutien de la Turquie aux intégriste islamiques, y compris à ceux de Daech. Pour moi, le conflit entre Erdogan et les Kurdes est une question essentielle pour la Turquie qui a peur de l’existance d’un pouvoir laïque et moderne à ses frontières. Je crois que le rêve d’Erdogan c’est d’être reconnu comme un nouveau sultan ou calife qui gouvernerai un monde islamique. Et pour cela, le grand obstacle devant lui ce sont les Kurdes, un peuple différent».

Vous avez également écrit «Nous devons ouvrir un dialogue libre pour arracher le terrorisme au terroriste, parce que Daesh est une tendance culturelle et morale et pour le détruire, nous avons besoin d’une arme culturelle». Vous croyez donc que le fanatisme religieux, qui est une composante du terrorisme, est une idéologie, une philosophie de vie qui imprègne une partie de la société au Moyen-Orient et doit également être combattu en proposant, à travers la culture, un autre modèle de société plus libre, tolérant, démocratique?

«Non, je ne crois pas que le fanatisme religieux soit capable de regarder loin, ni d’accepter de dialoguer. J’ai une autre proposition, selon moi plus profonde, qui s’adresse aux nouvelles générations, si on peux dire, la deuxieme génération de terroristes. Ceux qui sont nés dans une certaine éducation ou dans les milieux extremistes, soit islamistes, soit politiques qui provoquent la haine et la vengance. La question à creuser, pour sauver “l’humanité” partout, tant au Moyen-Orient qu’en Europe, est plus compliquée; on ne peux la résumer dans une interwiew dans un journal. Il nous faut de nouvelles méthodes éducatives, médiatiques et sociales pour éclairer le chemin très sombre et noir du fatalisme et contrer l’agenda politique des islamistes. J’insiste encore fois: Daech n’est pas un courant religieux mais un mouvement politique et nous devons travailler, sérieusement et culturellement, pour le battre».

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Conclusioni

Porre delle domande a Maha Hassan è stata un’esperienza insolitamente ricca di significato e anche di emozione per me, perché dalle risposte avute si comprende il travaglio interiore che è stato alla base delle sue scelte estremamente coraggiose, sin da giovane, in un Paese islamico pur provenendo da una famiglia conservatrice. Le donne, come la scrittrice racconta nei suoi romanzi, sono tuttora relegate in una zona d’ombra e di silenzio, espropriate delle loro emozioni. Infrangere le radicate tradizioni con la scrittura, in particolare con una narrativa affrancata dalle regole canoniche dettate dalla religione, non era e non è tollerato. La Hassan non ha rinunciato ad esprimersi e con forza continuerà a farlo. Pur specificando di non essere “une femme politique”, continua tuttavia, con i mezzi a sua disposizione, ad essere anche un’attivista a difesa dei diritti delle donne di ogni Paese e dei soggetti più deboli. Ammirevole anche il modo in cui vive la condizione di esule in Francia, senza rimpianti, con elegante intelligenza e sensibilità. Queste le sensazioni che mi ha trasmesso Maha in questo dialogo, sincero e non convenzionale, come nell’incontro con una vera artista, che spero rincontrare.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020

Maha Hassan a Palermo, 2019

Appendice

Lei è nata in Siria da una famiglia curda; una sua nonna era armena, perseguitata in Turchia, e, per restare in Siria, dovette sempre nascondere la sua vera identità. Lei porta con sé elementi di culture e religioni differenti dunque, e la stessa Siria è sempre stata un crocevia, un incontro-scontro di appartenenze religiose ed etnie differenti, con una società affatto omogenea. “Esilio siriano” ripercorre la storia politica recente della Siria e degli esili siriani, le pacifiche rivolte popolari, le azioni e le violazioni dei vari attori e governi interessati, i faticosi tentativi della popolazione per uscire dall’abisso della guerra…Hamadi si chiede: «Lontani o ancora in patria (watan) i siriani si domandano: “Chi siamo, noi, oggi?” La domanda sull’identità siriana sta diventando fondamentale perché la guerra ha messo in luce le fragilità della società». Per lei, che vive per scelta lontana dal Suo Paese, la definizione della sua identità è un argomento difficile o si è strutturata attraverso l’elaborazione di valori universali e culturali?

Sono una scrittrice; questa è la mia identità definitiva che ho costruito in questi anni vissuti in Siria e in Francia. Sono cittadina francese ma sono anche curda. Sono, forse, un po’ armena e, perché no, anche ebrea. Ho trascorso un anno a casa di Anna Frank. Presto apparirà il mio romanzo sulla mia dolorosa esperienza nella casa di Anna ad Amsterdam, dove ho scoperto elementi comuni tra ebrei e curdi e tra l’esodo degli ebrei e quello dei siriani a causa della guerra. Penso di essere nata in Siria, discendente da una nonna armena, un’altra curda e una madre araba, e che sono venuta a vivere in Francia per vivere esperienze multiple, a volte paradossali e contraddittorie. Ecco perché oggi sono solo una scrittrice. È la mia unica identità.

Noam Chomsky, autorevole filosofo, scienziato e attivista politico statunitense sempre coerente con le sue idee, anche se politicamente scomode, rimarca il concetto che gli intellettuali, proprio perché “privilegiati” – in quanto fruitori e attori culturali ‒ hanno più opportunità degli altri e, quindi, anche più responsabilità. «È a quel punto che un individuo deve scegliere e usare il privilegio per mettere in discussione lo Stato» scrisse in un saggio del 2011, per ultimo ripubblicato ne “La responsabilità degli intellettuali” (Ponte delle Grazie, 2019). Si riferiva tuttavia ad una minoranza, in una democrazia occidentale. Lei ha scelto tanti anni fa di esercitare la piena libertà di espressione attraverso la narrativa, il romanzo, e per questo però ha dovuto lasciare la Siria, il Paese dove è nata. C’era qualcosa di pericoloso e inaccettabile nei suoi scritti? Come è arrivata alla difficile decisione di partire?

Scrivere per me è una questione di nascita. Sono nata per raccontare, ripeto questa frase ovunque. Non possiamo raccontare senza libertà. Il fatto che io sia nata in Siria, figlia di una famiglia curda, ma che parlava solo l’arabo a causa del dispotico regime nazionalista arabo, che negava qualsiasi libertà di espressione per il popolo siriano, mi ha costantemente messa in pericolo. La prima volta mi è stato vietato di pubblicare il mio secondo romanzo e poi, nel 2004, quando è scoppiata la “Rivoluzione curda”, sono stata interrogata dai servizi di intelligence come scrittrice curda. Questo è il motivo per cui avevo paura. Non avevo scelta, dovevo lasciare la Siria per salvare la mia scrittura ed essere in grado di coltivare questa ragione di vita e farli crescere come un albero, in questo esilio scelto e amato.

C’è un’immagine molto efficace e vivida che lei suggerisce a proposito della libertà. «Nel nostro Paese – ha scritto – la libertà è come un prodotto fresco da gustare, quando per voi (per i Paesi occidentali, n.d.a.) ha il sapore e la consistenza di un cibo conservato». Ci spieghi ancora.

Queste sono le parole pronunciate da Rima, il personaggio principale del mio romanzo Tamburi d’amore, tradotto in italiano. Rima ha vissuto in Francia dove la libertà è un concetto scontato, dopo la lunga lotta del popolo francese per realizzare questa idea. Tornando in Siria, Rima prova un altro gusto della libertà, una nuova, fresca, inedita, sconosciuta libertà, perché i siriani hanno vissuto a lungo senza essere in grado di esprimersi.

Nonostante la lunga storia di tradimento e abbandono dei curdi, sento profondamente che un giorno verrà fatta giustizia. Ciò potrebbe non accadere velocemente, ma sono convinta che l’intelligenza internazionale vedrà i curdi come un popolo che merita i propri diritti; credo nel futuro. Come cittadina francese di origine curda, so che ci sono molte persone in Francia che sostengono il caso curdo. Penso che la Francia e la comunità europea possano svolgere un ruolo importante nell’aiutare la nascita di uno Stato o uno status più stabile per i curdi, anche in Medio Oriente.

Il siriano Mohammed Dibo, esule a Beirut, in “Esilio siriano” aveva scritto «alcuni intellettuali hanno creato una nuova cultura, nata oggi in Siria, che si esprime meglio in campo creativo, attraverso la poesia, i romanzi, il teatro, le testimonianze, la pittura, le caricature». Secondo lei,  nonostante ci siano in Siria  zone con presenza di milizie non governative, tra cui gruppi terroristi, che  continuano a subire bombardamenti da aerei russi e governativi (Idlib, notizia Ansamed del 20/12/19), e tenendo conto dei recenti e rovinosi atti di guerra in Iraq per mano Usa-Iran, secondo Lei si può ancora sperare che i fenomeni culturali cui accenna Dibo possano accrescersi, divenire punti di riferimento per una rinascita della cultura siriana che in passato ha subìto enormi censure, e violenze di ogni tipo, dirette verso i suoi esponenti?

Il giorno in cui rispondo a queste domande, ci sono due film siriani nominati per gli Oscar. Forse un film sarà in finale. Il cinema di regime non è mai stato in grado di raggiungere questa posizione. Il fatto che i siriani insistano sulla libertà e sulla democrazia ha davvero creato una nuova ondata di espressione e liberato arte e cultura dalle sue prigioni interne. Vivevamo come nel mondo del 1984, dove il Grande Fratello vegliava su di noi, anche nei nostri sogni. Oggi, nonostante il male della guerra, delle vittime, della morte, siamo più liberi dentro. Mi piace parlare di espressione: la nuova ondata culturale seguirà questa guerra, come i grandi movimenti artistici del mondo, ad esempio il Surrealismo, che sono nati accanto alla guerra.

Copertina del romanzo di Hassan, La metropolitana di Aleppo

Non dico esattamente questo, non sono un politico, sono una scrittrice e, più precisamente, una scrittrice di romanzi. Uso la mia immaginazione mescolandola con la realtà. Ma ho visto gli islamisti in Turchia con i miei occhi. Non è un segreto; ci sono molti articoli che parlano del sostegno della Turchia ai fondamentalisti islamici, compresi quelli di Daesh. Per me, il conflitto tra Erdogan e i curdi è una questione essenziale per la Turchia, che ha paura dell’esistenza di un potere secolare e moderno ai suoi confini. Credo che il sogno di Erdogan sia quello di essere riconosciuto come un nuovo sultano o califfo che governerà un mondo islamico. E per questo il grande ostacolo davanti a lui sono i curdi, un popolo diverso.

Ha scritto anche «Dobbiamo aprire un dialogo libero per strappare il terrorismo al terrorista, perché Daesh è una tendenza culturale e morale e per distruggerlo abbiamo bisogno di un’arma culturale». Lei ritiene quindi che il fanatismo religioso, che è una componente del terrorismo, sia un’ideologia, una filosofia di vita che permea parte della società in Medio Oriente e va combattuta anche proponendo, mediante la cultura, un altro modello di società, più libera, tollerante, democratica?

No, non credo che il fanatismo religioso sia in grado di guardare lontano, né di accettare il dialogo. Ho un’altra proposta, che ritengo più profonda, che si rivolge alle nuove generazioni, se si può dire, alla seconda generazione di terroristi. Coloro che sono nati in una certa cultura o in circoli estremisti, islamici o politici, che provocano odio e vendetta. La domanda da approfondire, per salvare “l’umanità” ovunque, sia in Medio Oriente che in Europa, è più complicata; non può essere riassunta in un’intervista in un giornale. Abbiamo bisogno di nuovi metodi educativi, mediatici e sociali per far luce sul cammino molto oscuro e disastroso del fatalismo e per contrastare l’agenda politica degli islamisti. Insisto ancora una volta: Daesh non è una corrente religiosa ma un movimento politico e dobbiamo lavorare, seriamente e culturalmente, per sconfiggerlo.

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Eugenia Parodi Giusino, laureata in Filosofia, si è sempre occupata di problematiche sociali, di ingiustizie e soprusi per motivi razziali e differenze culturali. L’analisi dei Paesi “in via di sviluppo” e il razzismo negli Usa è stato l’oggetto della sua tesi. Ha insegnato materie letterarie ad Orano, in Algeria, e ha lavorato come redattore ed editor in diverse case editrici a Milano, Padova, Roma (Feltrinelli, Laterza, Arsenale Cooperativa editrice, Liviana, Piccin). Da qualche anno è presente come editor e autrice di articoli e recensioni nella redazione della rivista Per salvare Palermo della Fondazione omonima e in riviste on line. Vive a Palermo.

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articolo pubblicato sulla rivista periodica <<Dialoghi Mediterranei>> dell’Istituto euroarabo

Faraoni di ieri e di oggi, nazisti imboscati e diritti negati

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vignetta del cartoonist giordano Osama Hajjaj

Uno dei parametri per quantificare la presenza di democrazia di un Paese è il riconoscimento e il rispetto reale dei diritti umani fondamentali. Un aspetto costante dei regimi dove questi vengono negati è il ricorso alle informazioni fornite o estorte da spie e “osservatori”, tramite polizia e servizi segreti più o meno legalizzati. Questo articolo guarda all’Egitto in quanto la morte per tortura del ricercatore italiano Giulio Regeni avvenuta al Cairo nel gennaio 2016 ha scoperchiato e reso trasparente la drammatica realtà di una dittatura dove le sparizioni, gli arresti, le torture e la morte dei cittadini ritenuti  oppositori sono all’ordine del giorno. L’enorme potere di cui godono militari e polizie ha radici storiche documentate da studiosi e testimonianze fornite dalla presenza sul campo di valenti giornalisti e visitatori.


Uno dei più stimati giornalisti e reporter del secolo scorso è il polacco Ryszard Kapuściński che lavorò in Egitto per la prima volta nel 1960, presidente il colonnello Gamal Abdel Nasser e quando il Cairo era anche la capitale della Repubblica araba unita.

Nel suo In viaggio con Erodoto così descrive la situazione (2007:110-11)

«Avevano tutti gli occhi e le orecchie. Qua un sorvegliante, là un guardiano, più oltre una figura immobile su una sedia a sdraio […] quelle persone non facevano niente di preciso, ma i loro occhi formavano una fitta rete di osservazioni incrociate che copriva l’intero spazio stradale, dove tutto quel che accadeva veniva tempestivamente osservato e riferito» e più avanti «Basta assoldare questi individui e dare loro la sensazione di servire a qualcosa […] l’uomo della strada asservito alla dittatura comincia a considerarsi una parte del potere, un individuo importante e significativo […] la dittatura ottiene con poca spesa, anzi quasi gratis, uno zelante e onnipresente agente segreto.»

E a proposito di Nasser, guida del colpo di stato militare del 1952 che detronizzò il re Faruk  e pose fine al periodo “liberale” che il Paese aveva vissuto dal 1922 al 1952:

«Per molto tempo aveva dovuto lottare contro una forte opposizione interna: da un lato i comunisti, dall’altro i Fratelli Musulmani […] Contro entrambe queste forze Nasser manteneva corpi di polizia d’ogni genere.» (ibid.:109)

Tra le moltissime pagine scritte su questo regime in vari saggi dallo storico Massimo Campanini e che riguardano questo specifico aspetto troviamo parole simili in Storia del Medio Oriente «Di fatto, un pesante clima di sospetto e di controllo poliziesco venne a gravare sulla società »  (2006:129). Persino quando descrive il periodo politico della Rau ‒ unione di Egitto con la Siria ispirata al panarabismo di Nasser e da lui fortemente voluta ‒ lo studioso sottolinea il pugno duro esercitato dal rais egiziano, mediante una stretta vigilanza poliziesca, nei confronti della più piccola Siria, dello stesso partito Ba’th che pure lo aveva sostenuto e anche dell’esercito siriano, che venne epurato. Come  capo delle Forze armate in Siria Nasser inviò un suo carissimo amico, il feldmaresciallo ‘Abd al Hakīm ‘Āmer, che aveva partecipato al golpe degli Ufficiali Liberi nel ’52 e che raggiunse la massima carica dell’esercito, capo di Stato Maggiore.  Nasser si fidava talmente di Amer che lo nominò anche vice presidente dell’Egitto, ma la misteriosa fine del maresciallo [1] è ancora da approfondire.

Potenza dell’esercito e i nemici di Nasser

In Egitto vi è una tradizione di potere in mano ai militari risalente al periodo dei Mamelucchi, come afferma anche l’insegnante di Studi ottomani nella Istambul Bilgi University Suraya Faroqhi, nel saggio L’Impero Ottomano (2006:120-121).  La studiosa, nel fare riferimento allo storico legame tra Turchia ed Egitto nel tipo di organizzazione militare, scrive

«Mahmud II [sultano nel periodo1808-1839, N.d.A.] adottò modelli di comportamento che gli erano stati mostrati dal governatore dell’Egitto Mehemed Alì. Questa provincia, a partire dalla conquista ottomana del 1517, era stata amministrata internamente da schiavi militari affrancati (i Mamelucchi) che controllavano il paese già dal XIII secolo.» 

Anche se per consolidare il suo potere Mehemed Alì fece uccidere i capi delle principali consorterie mamelucche, vi era un esercito permanente composto  tramite il reclutamento di contadini egiziani e addirittura «l’esercito egiziano rappresentava l’unica forza militare potente di cui poteva disporre a quei tempi l’amministrazione centrale ottomana » (ibid.:121). L’esercito mamelucco era talmente forte che riuscì ad impedire (battaglia di ‘Ayn Jalut, 1260) la conquista dell’Egitto da parte dei Mongoli, i quali avevano già conquistato l’odierno Iraq.

Tornando all’epoca di Nasser, Campanini, in Storia dell’Egitto, descrive come la presa di potere del rais avrebbe, ovviamente, comportato la creazione di un regime fortemente autocratico basato su un partito unico e, sopra tutti, sul presidente, anche se molte aperture sul piano sociale furono fatte.  L’avversario politico più accanito furono i Fratelli Musulmani che condannavano il nazionalismo arabo e l’ateismo di Nasser

Nel 1966 i Fratelli organizzarono un complotto per uccidere Nasser. Il presidente rispose con la più dura delle persecuzioni e delle reprimende mai scatenate contro di loro. Qutb [2] fu impiccato; la pasionaria dell’organizzazione, Zaynab al-Ghazali, tra molti altri, fu spietatamente torturata. (2017:203).

La testimonianza di Zaynab al-Ghazali e la “letteratura delle carceri”

Zaynab al-Ghazali al-Jabȋlȋ  è stata una fervente devota dell’Islam, militante dei Fratelli e una delle prime femministe in Egitto, naturalmente nei limiti imposti dall’Islam. Dopo un anno trascorso in carcere tra le sevizie, in un processo-farsa fu condannata a 25 anni di lavori forzati e fu però graziata dopo cinque anni, morto Nasser. L’unico suo libro tradotto in italiano si intitola Giorni della mia vita nelle prigioni del Faraone Nasser e fa parte di una vasta letteratura sviluppatasi in molti Paesi arabi con regimi autoritari, in particolare in Egitto, a partire dagli anni sessanta, imperniata sulla repressione carceraria, gli arresti indiscriminati  e immotivati,  il controllo violento sulla popolazione e la onnipresenza di servizi segreti, la “letteratura  delle carceri”.

In questa autobiografia l’autrice alterna la descrizione delle terribili torture subite ciclicamente per un anno (si voleva da lei una confessione di avere cospirato e ordito complotti assieme ai Fratelli Musulmani per uccidere Nasser) con preghiere e descrizioni delle visioni e degli stati d’animo di tipo mistico vissuti in carcere. A completamento delle pesantissime accuse mosse al “tiranno”, Zaynab al Ghazali afferma anche che «In quanto a Nasser, la storia lo giudicò il 5 giugno 1967 [3], quando decise di evacuarci ( I Fratelli, N.d.A.) dalla prigione militare per incarcerarvi i suoi stessi uomini, i suoi agenti e i suoi più stretti collaboratori» (1989:145).

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Nazisti imboscati e nazisti in qualità di tecnici

Probabilmente nessuno degli scrittori e intellettuali arrestati era però essere a conoscenza del fatto che al Cairo in quel periodo circolavano alcuni criminali nazisti. Nel 2008 Nicholas Kulish e Souad Mekhennet due collaboratori del «New York Times» attraversano le strade della città mostrando agli abitanti una foto vecchia e rigata  che ritrae il medico austriaco delle Waffen-SS Aribert Ferdinand Heim, il medico boia di Mauthausen, latitante al Cairo per quasi trenta anni, sino al 2012, anno della presunta morte. Con questo indizio riescono a trovare in uno scantinato una borsa di cuoio impolverata, zeppa di documenti e corrispondenza firmata dal criminale ricercato [4] e, risalendo alla famiglia di Heim, possono ricostruire il suo percorso egiziano.

Detto anche “il macellaio di Mauthausen” o “il dottor morte”  durante la sua permanenza al campo di sterminio aveva torturato e ucciso deliberatamente e in modi crudeli prigionieri sani anche per compiere esperimenti.

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Aribert Ferdinand Heim (ph. sito WWII Gravestone)

Ma il medico austriaco non fu il solo criminale nazista a soggiornare in Egitto a quel tempo.

Se Heim, presumibilmente, riuscì a nascondersi alle autorità egiziane – aveva acquisito nome e cognome arabi e si era “convertito” all’Islam  ̶  diversi ufficiali tedeschi, tra cui ex militari della Wehrmacht, (sono citati Wilhelm Voss, Ernst-Günther Gerhartz , Wilhelm Fahrmbacher ) furono invece chiamati dal governo egiziano in qualità di tecnici. Kulish e Mekhennet scrivono ne Il dottor Morte

I tedeschi erano accolti a braccia aperte non soltanto in America Latina , dove emigrarono a frotte, ma anche in Egitto, paese che ne apprezzava le competenze e non si curava né del loro passato né della fede politica. I primi consiglieri militari tedeschi arrivarono nella capitale egiziana intorno al 1950. […] Parecchi militari del movimento Ufficiali Liberi […] avevano simpatizzato per la Germania. Speravano che una vittoria nazista ponesse fine all’influenza coloniale britannica nel loro paese. Il nuovo regime di Nasser non solo non cambiò posizione, ma arruolò un numero anche maggiore di soldati e tecnici tedeschi. Gli ex militari della Wehrmacht […] lavoravano per il Ministero della Guerra e contribuivano ad addestrare l’esercito e migliorare gli armamenti (2014:73-74).

Poco dopo gli autori ci riportano al tema dei servizi segreti e delle prigioni

Ogni tanto la stampa scriveva che ex membri delle SS e della Gestapo erano andati a ingrossare le file dei servizi segreti del Cairo e contribuivano persino alla creazione dei campi di concentramento in cui rinchiudere gli oppositori del regime di Nasser (ibid.:74).

 

Le misure contro il terrorismo islamico acuiscono le dittature

L’orientamento di Nasser seguiva un filo coerente. Simpatie dei regimi egiziani per l’Asse italo-tedesco erano stati evidenti già con il re Faruk e – riferisce Campanini  ‒ anche nel giovane Anwar al-Sadat degli Ufficiali Liberi, sempre in funzione anti-inglese (Storia dell’Egitto, 2017:183).  Il successore di Nasser,  passato alla storia per l’incontro di pace con Israele, all’interno si trovò a dover combattere un feroce terrorismo di matrice islamica e perseguì anche lui epurazioni (dei seguaci di Nasser ma anche di personalità della cultura), giri di vite e arresti indiscriminati contro gli oppositori (Medio Oriente, 2007:175). Fu assassinato nel 1981 da un fondamentalista islamico al grido «Ho ucciso Faraone!».

Il controllo poliziesco sulla società si estese ancora con Mubarak, che, nella continua lotta al terrorismo, varò riforme costituzionali per rafforzare ulteriormente il potere esecutivo «nel mentre vengono abolite l’habeas corpus e le garanzie individuali dello stato di diritto» (ibid.178).

Il regime di “emergenza” in pratica non è mai finito. E mentre la famiglia e l’Italia aspetta da più di due anni di conoscere da chi e perché è stato ferocemente torturato a morte Giulio Regeni, al punto da renderlo irriconoscibile, con il generale al-Sīsī al governo la cronaca ci riporta quasi quotidianamente notizie di arresti, sparizioni e morte di cittadini egiziani di qualunque strato sociale, primi fra tutti gli attivisti nell’ambito della difesa dei diritti umani, come per i membri della Ong Ecf (Commissione per i diritti e la libertà) Amal Fathy e l’avvocato Haitham Mohammedine, arrestati, e per i legali e consulenti della famiglia Regeni Ahmad Abdallah e Ibrahim Metwally, fermato e posto agli arresti mentre si recava a Ginevra a discutere di persona di persone scomparse.

Basta esprimere un cenno di opposizione in un blog o anche scattare delle foto per un’agenzia di stampa durante un violento sgombro della polizia come è accaduto per il giovane reporter Mahmoud Abu Zeid (detto Shakwan), in prigione dal 2013 con udienze continuamente rinviate. Per lui è stata chiesta la massima pena, morte per impiccagione.

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Con queste “coincidenze” è proprio difficile pensare che la morte di Giulio sia stata un caso di cui il governo egiziano ignori i particolari, le motivazioni e gli autori materiali. E, probabilmente, un elemento che nella nostra cultura è un punto di merito per un ricercatore che si reca in Egitto, ossia  una certa conoscenza della lingua araba, è stato in quel regime un aggravio ai fini della sua condanna.

Note

[1] Sulla morte di Amer, ufficialmente suicidio, è stata avanzata l’ipotesi che Nasser lo abbia costretto a suicidarsi a seguito della terribile sconfitta subita nel 1967, durante la cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, dalle forze militari egiziane comandate appunto da Amer. Se Igor Man, prestigiosa firma de «La Stampa» e analista del Medio Oriente, in Diario Arabo aveva raccontato che «A pagare fu il maresciallo Amer, comandante supremo, un uomo bello e gentile, legato da una amicizia carnale a Nasser del quale tuttavia non condivideva la “politica dell’azzardo”. Il rais, che pure lo amava, lo fece suicidare», la storia ha tuttavia  dato un giudizio negativo sull’operato del maresciallo, accusato di incompetenza e sospettato di volere organizzare un golpe. Un film egiziano del 2009, Al Rais wal Moushir (The president and the marshal) ha riaperto la  controversa questione della morte alla luce della complessa relazione tra i due uomini. Familiari di Amer hanno avanzato critiche verso il racconto sostenendo che il loro congiunto è stato ucciso e riportando prove forensi.

[2] Sayyid Qutb fu uno dei massimi ideologi dell’organizzazione politico-religiosa dei Fratelli Musulmani

[3] Data di inizio della Guerra dei Sei Giorni

[4] Alla fine della guerra Heim era stato in un campo di prigionia in Francia gestito dagli americani,  dove aveva esercitato la medicina e, per ironia della sorte, avuto apprezzamenti per il suo lavoro. Non risultando tra i criminali di guerra fu poi rilasciato, dopo tre anni di detenzione in vari campi, e qualche anno dopo fuggì al Cairo.

Riferimenti bibliografici (in ordine di citazione)

Ryzard Kapuściński, In viaggio con Erodoto, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2007

Massimo Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2006, Il Mulino, Bologna 2007

Faroqhi Suraiya, L’impero ottomano, Il Mulino, Bologna 2008

Igor Man, Diario Arabo.Tra il serio della guerra e il sacro del Corano, Bompiani 2002

Nadia Abou el Magd, Film to explore Egyptian’s general suspicious death, in «The National World», 15-12-2009

Zaynab al-Ghazali al-Jabȋlȋ,  Days of my life, Hindustan Publications, 1989, trad. it. Giorni della mia vita nelle prigioni del Faraone Nasser nel sito web La Madrasa di Malika https://lamadrasadimalika.wordpress.com (consultato  in maggio 2018)

Nicholas Kulish e Souad Mekhennet, Il dottor Morte. Storia della caccia al medico boia di Mauthausen, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2014

Massimo Campanini, Storia dell’Egitto.Dalla conquista araba a oggi, Il Mulino, Bologna 2017

(Questo articolo è stato cortesemente pubblicato nel n.32 della rivista periodica on line <<Dialoghi mediterranei>> http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/egitto-faraoni-di-ieri-di-oggi-nazisti-imboscati-e-diritti-negati/ )  

Storia ed evoluzioni dell’implosione libica

Articolo pubblicato nel n. 28 del periodico “Dialoghi Mediterranei” dell’Istituto Euro-arabo di Mazara del Vallo

n. 2 mellitah terminale di compressione gas
Mellitah (Libia) terminale di compressione

Non c’è forse altro Paese crocevia della Storia quale è oggi la Libia, terra senza Stato e senza Governo, attraversata da una massa imponente di popolazioni che vi si riversano dopo sofferte e drammatiche fughe per tentare di raggiungere l’Europa e minacciata dalla presenza di numerosi gruppi jihadisti, primo fra tutti l’Isis. Per questi motivi si trova centro dell’attenzione di molteplici osservatori ma rimane un Paese poco conosciuto nelle sue dinamiche interne e poco compreso nelle sue più complesse articolazioni. Da qui l’importanza di guide e strumenti che ci aiutino a conoscere questa realtà geografica che guarda con noi e come noi al Mediterraneo.

Michela Mercuri − docente universitaria di Storia contemporanea, analista ed esperta di politica estera, in particolare dei Paesi del Medio Oriente dopo le rivolte arabe − in questo denso saggio, Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso (FrancoAngeli 2017) ripercorre un secolo di storia della Libia alla ricerca delle cause che hanno determinato l’attuale stato di bellicosa anarchia del Paese, di cui non sembra intravedersi la fine, e che preoccupa tutta l’Europa per la mancanza di un unico interlocutore politico chiaro e stabile. La storia degli avvenimenti e delle dinamiche socio-politiche libiche, dall’inizio dello scorso secolo sino a questi ultimi mesi − con un breve excursus sulla precedente dominazione turca − non è fine a se stessa, ma la base necessaria per una compiuta analisi di ambito geopolitico che consente all’autrice non solo di spiegare nascita e atomizzazione di uno dei principali attori dell’attualità libica: le più che numerose milizie armate [1], con tutte le loro estensioni, in altri termini i loro sponsor locali e internazionali, ma anche di indagare intorno alle strutture e alla composizione delle tribù che costituiscono la base fondante dell’organizzazione sociale nonché di esaminare i rapporti di forza tra i rappresentanti politici dei territori libici e di formulare infine qualche ipotesi sul futuro realisticamente più probabile per questo Paese.

Per ovvie ragioni ampio spazio viene dato all’intreccio dei rapporti economici e politici che, nel bene e nel male, legano in modo privilegiato all’Italia, ed all’Eni, questa terra che si fa fatica a definire nazione, e che attualmente ha “due governi e mezzo”

Divisioni

La chiave di lettura utilizzata dall’autrice si incentra su «le fratture regionali e tribali che sono emerse, con rinnovato vigore, dopo la morte del rais, tanto da divenire uno dei temi centrali del dibattito sui possibili assetti futuri del paese». Il primo e più evidente contrasto, che da sempre è saltato agli occhi di visitatori e studiosi è quello tra le due principali regioni, Tripolitania e Cirenaica −conquistate a due anni di distanza dall’Impero ottomano – perché

«Le due “province” erano profondamente diverse. Tripoli, nell’ovest del Paese, era una terra di mercanti, il porto mediterraneo più vicino al deserto, rivolta verso il Maghreb (il tramonto) e guardava verso Tunisi, soprattutto per gli scambi commerciali. Bengasi, a est, si affacciava sul Mashrek (l’alba) e guardava verso l’oriente».

Altri fattori di differenziazione opportunamente sottolineati sono il prevalere, nella popolazione, dell’elemento arabo in Cirenaica e di quello berbero in Tripolitania, il radicamento storico della confraternita della Senussia in Cirenaica ed il suo ruolo come elemento unificante per la popolazione sia nell’ambito religioso che politico-sociale. Un retaggio che ancora oggi permane ma che riguarda, appunto, soltanto la Cirenaica. E ancora il fatto che gli Ottomani instaurarono rapporti amministrativi e di sudditanza verso l’Impero differenti nei due vilàyet (province). Di fronte all’invasione italiana le due regioni organizzarono la resistenza in modo diverso secondo la composizione dei centri di potere.

«Nella Tripolitania, priva di un riferimento politico unico, i volontari costituivano delle unità combattenti sotto la guida dei capi tribù e degli ufficiali turchi. In Cirenaica, invece, il panorama era diverso: qui c’era un unico centro propulsivo connotato dal potere politico e religioso della senussia».

Quando nel 1933 fu completata dall’Italia l’unione delle due province più il Fezzan (con Italo Balbo governatore generale)

«l’unità proclamata sulla carta non bastò a creare quella della Nazione e delle sue genti, e non bastò neppure l’ambiziosa costruzione della via Balbia, la litoranea che univa la Tripolitania alla Cirenaica. I due territori erano stati uniti amministrativamente e poi anche fisicamente, ma questo non fu sufficiente per cementare un’identità nazionale unitaria mai esistita».

Del resto, con l’ affermazione «La Libia non è mai stata una Nazione» si apre la prefazione al libro firmata da Sergio Romano.

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Libia storica

La tribù come elemento socialmente fondante

 

Michela Mercuri considera il sistema organizzativo e socioculturale delle tribù uno dei cardini interpretativi più convincenti della contemporaneità libica. Mentre il carisma della confraternita, dato anche dalla offerta di welfare dei vari monasteri, aveva limitato la frammentazione tribale nell’entroterra, «il potere delle tribù si consolidò ulteriormente dopo la conquista italiana». E più avanti «Le tribù, parzialmente “sedate” durante il quarantennio gheddafiano, sono state sovente aghi della bilancia degli equilibri interni» .

Risulta ancora oggi utile uno studio compiuto più di settanta anni fa dallo storico britannico Edward E. Evans-Pritchard, militare di stanza in Cirenaica durante la seconda guerra mondiale, che aveva vissuto per un certo tempo con gli indigeni semi-nomadi (Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale, Ed. del Prisma, 1949). Se lo scopo principale del testo era descrivere l’importante legame dei beduini della Cirenaica con la Senussia, il contatto diretto dello studioso con la gente delle tribù, accompagnato da un grande rispetto, gli consentì di comprendere le dinamiche interne dei clan, e il loro rapporto con le città. Le tribù – notava Evans-Pritchard − a loro volta segmentate in suddivisioni di vari livelli, erano più forti delle città e non avevano a che fare con le amministrazioni, con le leggi e i tribunali cittadini. Erano alquanto incontrollabili, furono compattate soltanto in Cirenaica dall’obbedienza alla Senussia contro l’invasione italiana. Quando l’Italia fascista distrusse le strutture di base della confraternita, i monasteri, e tutta la loro organizzazione politica, venne a mancare l’unico elemento unificante. Essendo inoltre il principio della struttura tribale la contrapposizione tra le sue sezioni o segmenti, non c’era spazio per un governo o uno Stato [2].

L’era del rais

Michela Mercuri riesce a condensare sapientemente in poche pagine le vicende della Libia sotto il lunghissimo dominio di Gheddafi a partire dalle intese e scontri che i politici italiani ebbero con il dittatore. Prima di lui «la Costituzione promulgata il 7 ottobre del 1951, stabilì la nascita del Regno unito di Libia, con una Monarchia ereditaria e un sistema federale rappresentativo» ma

«nella “nuova” Libia unitaria, fatta eccezione per sparuti gruppi nazionalistici, i cittadini libici si identificavano per lo più con la famiglia, la tribù, la regione e, in senso ancor più generale, si consideravano parte della comunità islamica dei credenti ma non della nazione libica».

Dopo avere inquadrato storicamente la presa del potere del colonnello nel 1969, in parallelo con le vicende politiche del vicino Medio Oriente, l’autrice si propone di «capire le trasformazioni che egli ha impresso al Paese e che hanno contribuito a renderlo una delle sfide più complesse per la stabilità dello scacchiere mediterraneo» e delinea «l’impalcatura che il rais volle dare alla Libia, soprattutto da un punto di vista interno, per spiegare come questo assetto ne abbia forgiato il presente con tutti i suoi problemi di instabilità».

Al di là degli aneddoti sugli aspetti caratteriali e dell’ambizioso progetto del colonnello di “una terza via universale” per sanare il suo Paese, e senza disconoscere l’importante ruolo politico-strategico raggiunto con lui dalla Libia a livello internazionale, ciò che viene rimarcato è «un inasprimento della dittatura che presto si stava trasformando in tirannia personale di Gheddafi sulla Libia e sui libici» e il fatto che «trasformò in ideologia ufficiale dello Stato la rappresentazione non statale del potere propria della cultura delle tribù». Altri pesanti provvedimenti come lo scioglimento dell’esercito, sostituito da corpi militari e para-militari e servizi segreti alle sue dirette dipendenze saranno carichi di conseguenze.

Toccante è il racconto dell’allontanamento obbligato dal Paese delle famiglie di coloni italiani per ordine del rais nel 1971, con l’apporto di interviste rilasciate all’autrice da alcuni testimoni. Un torto che va inquadrato nell’ottica gheddafiana come una parte delle azioni “compensative” dell’Italia verso la ex colonia. Un’altra parte è l’immensa quantità di danaro richiesta più volte dal dittatore ai nostri vari governi. A questo punto va però ricordato che l’Italia fascista, per la conquista, aveva usato i più crudeli e cruenti mezzi infierendo anche sulla popolazione civile con deportazioni di massa, campi di concentramento e lavori forzati e costruendo un reticolato di 270 km per isolare definitivamente la resistenza beduina capitanata da Omar al- Mukhtàr [3].

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Michela Mercuri

 

Petrolio, migrazione, terrorismo

Da qui in avanti il saggio miscela in modo comprensibile anche a chi non abbia grandi conoscenze del tema, avvenimenti di storia e di cronaca recente con elementi di geopolitica, facendo entrare nella scena man mano quegli attori dell’area mediorientale e internazionale, quei Paesi che, nella partita a scacchi con la Jamahiriya (appellativo che diede Gheddafi alla forma politica della Libia), possono trarre dei vantaggi economici o territoriali. Ora se l’oggetto del contendere sono senza dubbio le enormi riserve di petrolio e gas, negli anni recenti un massiccio e inarrestabile fenomeno, la migrazione, ha come cardine la Libia, passaggio quasi obbligato per l’Europa. Questa immane tragedia umanitaria è divenuta qui il nuovo business per bande di trafficanti e assassini, che, in rapporti ambigui e spesso con la complicità delle forze dell’ordine ufficiali, gestiscono la tratta degli esseri umani e i vari centri segreti di smistamento e detenzione dei migranti. [4].

Se alla presenza di gruppi di terroristi islamici fortemente radicati, di campi di addestramento e traffici di armi si aggiunge che «il Consiglio presidenziale di Fayez al-Sarraj, che si è insediato a Tripoli da più di un anno e mezzo, non controlla neanche la capitale ed è sotto il giogo delle molte fazioni locali», minacciato in primo luogo dalle aspirazioni del generale Haftar che esercita il potere militare in Cirenaica, e che «nessuno dei due “governi libici” ha il benché minimo controllo dei gruppi che popolano il sud del Paese», si ha una miscela esplosiva che fa della Libia un Paese pericoloso e pieno di incognite. A proposito del traffico di armi un articolo pubblicato nel 2016 su «Limes» (B. E. Selwan El Khoury, 3/2016,101) cita un report del sito arabo Middle East Online secondo cui «…in Libia vi sarebbero circa mille trafficanti di armi e oltre venti reti di contrabbando attive tra Libia e Tunisia […] e sarebbero presenti tra i 22 e i 28 milioni di armi, vale a dire 20 milioni più di quelle lasciate dal regime di Gheddafi».

Michela Mercuri infine aggiunge che «la stabilizzazione della Libia è fondamentale anche per la solidità dei vicini regionali […], la persistenza di elementi jihadisti […] può continuare a mettere a rischio la stabilità della Libia e dei Paesi confinanti, in primo luogo l’Egitto». Nella parte finale l’autrice avanza l’ipotesi che ritiene più probabile per il futuro della Libia. Sebbene la stesura del libro sia terminata qualche mese fa, la Jamahiriya, in base ai riscontri con la cronaca, sembra andare proprio nella direzione indicata dalla studiosa.

Dotato di equilibrio tra le parti storico-descrittive e le ipotesi interpretative e forte di una bibliografia molto vasta, Incognita Libia è un libro da leggere e consultare, se si vogliono seguire le dinamiche di un Paese che ci riguarda tanto da vicino e con cui siamo obbligati ad intrattenere rapporti “amichevoli”, oggi più mai.

n.5 Tripoli's Arts and Heritage Festival, ph. The Libya Observer
Tripoli’s Arts and Heritage Festival (ph. The Libya Observer)

 

Il comunitarismo delle società arabe per Khaled Fouad Allam

Il punto di vista usato dalla Mercuri per comprendere le dinamiche del Paese, cioè il concetto di frammentazione regionale e tribale, ci sembra in sintonia con il pensiero di Khaled Fouad Allam, sociologo e politico di origine algerina, docente universitario di Islamistica e Sociologia del mondo islamico, recentemente scomparso. Il caso della Libia – a parte le sue peculiari caratteristiche evidenziate dalla Mercuri − si può inserire nel quadro interpretativo che lo studioso costruisce in linea generale per le società del Medio Oriente, ossia la mancanza di un discorso unitario forte. In primo luogo il sociologo fa notare come in questa zona del mondo le varie etnie e confessioni siano segmentate e si trovino inserite all’interno di una geografia delle fratture, ossia in territori delimitati da linee di frattura geograficamente date. Un chiaro esempio di ciò lo abbiamo in Libia dove il deserto, che si spinge sino al Golfo Sirtico, separa anche fisicamente Tripolitania e Cirenaica.

Le nazioni arabe nate dal collasso dell’Impero turco − afferma Allam − oltre la perdita delle antiche frontiere hanno subìto un trauma nel passaggio da impero a nazioni “moderne” «non solo perché la società, nel suo complesso, non era preparata» ma perché è mancato «uno schema culturale in grado di aiutare la costruzione dell’idea di cittadino, di individuo, libero e uguale, a prescindere dalle appartenenze identitarie su basi etniche e religiose» (Allam, 2014: 103). In quelle che erano chiamate “province arabe dell’Impero ottomano” l’impianto istituzionale era «il millet che significa “quartiere” ma che definiva il modo di gestione del rapporto fra diversità culturale e istituzione musulmana» (ibid.: 96). Le varie comunità, cioè, mantenevano la loro autonomia in alcuni ma importanti settori. Le società mediorientali – dice il sociologo − sono essenzialmente di tipo comunitarista per cui il gruppo prevale sull’individuo e l’idea di nazione è partita dall’idea di gruppi in lotta fra loro (Allam, 2014: 94-96).

Note

[1] In una fonte citata dell’autrice, soltanto a Misurata si stima la presenza di circa 200 milizie, con 36.000-40.000 unità, attive nel contrasto all’Isis. Nel Paese le milizie sono responsabili di vari crimini, soprattutto verso gli ex supporter di Gheddafi.

[2] Opera citata nel testo, cap. II, I beduini della Cirenaica. Cfr. anche l’articolo dedicato a questo interessante saggio su https://formertime.wordpress.com/2016/01/04/gita-in-libia-2/.

[3] Un autore imprescindibile per una conoscenza del colonialismo italiano è Angelo Del Boca. In particolare per la Libia cfr. capp. V e VIII di Italiani, brava gente? Giornalista e storico, ha scritto numerosi e considerevoli testi sulle guerre coloniali dell’Italia denunciando, per primo tra gli studiosi italiani, gli eccidi e le devastazioni ordinati dai generali e compiuti dagli eserciti durante il fascismo.

[4] Per un’idea di questa realtà cfr. Esodo. Storia del nuovo millennio, dove il giornalista e reporter di guerra Domenico Quirico racconta ciò che ha visto direttamente e vissuto assieme ai migranti e l’articolo I rischi per i migranti bloccati in Libia, su «Le Monde», citati in bibliografia.

Riferimenti bibliografici

Khaled Fouad Allam, Il jihadista della porta accanto. L’Isis a casa nostra, ed. Piemme, Milano 2014

Frédéric Bobin, I rischi per i migranti bloccati in Libia, in «Le Monde», pubblicato in «Internazionale», n.1220, anno 24, sett. 2017

Angelo Del Boca, Italiani brava gente?, Neri Pozza editore ,Vicenza 2005, quinta ed. 2016

Edward E. Evans-Pritchard, The Sanusi of Cyrenaica, Oxford University Press 1949 (trad. it. Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale. I Senussi di Cirenaica, Edizioni del Prisma, Catania 1979)

Domenico Quirico, Esodo. Storia del nuovo millennio, Neri Pozza editore, Vicenza 2016

B.E. Selwan El Khoury , Come lo stato islamico è penetrato in Libia, in «Limes», n.3/2016: 101

L’Algeria, l’Islam e la cultura amazigh. Intervista a Karim Metref

 

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Questa intervista è stata cortesemente pubblicata nel n. 26 del periodico  <<Dialoghi Mediterranei>> dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo

Perché intervistare Karim Metref?  Ho insegnato un anno in Algeria, ad Orano, tanti anni fa, in una scuola per bambini  italiani e non ho più avuto l’occasione di dialogare con qualcuno che lì fosse nato e vissuto e che avesse una visione del mondo vicina alla mia. Gli ho rivolto domande su temi a me cari e che giudico rilevanti al fine di una reale conoscenza di aspetti sociali e geopolitici lontani, e che però ci riguardano da vicino. Facciamo parte di un universo, il nostro orizzonte non può essere quello della strada di fronte.

Karim, nato nel ’67 in un piccolo paese della Cabilia, fin da giovane, è stato impegnato  in Algeria nell’attivismo per la difesa dei diritti culturali dei Berberi e dei diritti democratici di tutta la popolazione. Dopo corsi di formazione in nuove forme di pedagogia in Italia, Francia e Germania pratica l’impegnativo e importante mestiere di animatore e formatore in educazione alla pace, alla gestione non violenta dei conflitti e ad una visione interculturale dei rapporti umani. Veicola questi valori con la sua scrittura in numerose testate giornalistiche (Carta, Internazionale, Il Manifesto, Cem-Mondialità, Missioni della Consolata…) e in riviste elettroniche (Peacereporter, Babelmed, Agoravox, La bottega dei Barbieri…).

Collabora con vari Enti su progetti educativi ed ha pubblicato testi sul tema dell’esilio, una raccolta di lettere, rara testimonianza diretta di una sua missione di sette mesi a Baghdad, al tempo dell’occupazione Usa, nonché un manuale di ludo-pedagogia per maestri unitamente a video-documentari su villaggi cabili e su Baghdad occupata. Dal ’98 vive a Torino, dove lo abbiamo incontrato e intervistato.

In contemporanea con le elezioni in Francia, si sono svolte il 4 maggio scorso le elezioni in Algeria. I media italiani si sono limitati a registrare la bassissima affluenza alle urne della popolazione e i risultati. La flessione è stata ancora più massiccia di quella registrata nel 2012. Un articolo che hai scritto sull’argomento porta il titolo «Algeria: una lettura delle (non) elezioni amministrative». Cosa intendevi dire?

In Algeria sono anni che le elezioni politiche e presidenziali sono delle non-elezioni. Chi ha il potere distribuisce i posti parlamentari a proprio piacimento. E la poltrona presidenziale è sequestrata da ormai 18 anni. La maggioranza della popolazione non partecipa. E questo avviene da decenni con la benedizione della cosiddetta comunitá internazionale. Mentre il popolo ha sempre visto chiaramente i brogli, gli osservatori dell’Onu, dell’Ocse e della Comunità Europea non hanno mai avuto da ridire. Bisogna dire che il presidente attuale ha generosamente distribuito i pozzi di petrolio e di gas alle varie multinazionali e che tutti traggono profitto della sua permanenza al potere. Se la stampa internazionale l’ha segnalata questa volta è semplicemente perché l’astensione ha raggiunto livelli imbarazzanti. Che non si possono più nascondere. Livelli molto più bassi dei 35% dichiarati dal regime di Algeri.

L’Algeria è un grandissimo e importante Paese del Mediterraneo, e – per inciso – anche la più forte potenza militare africana, e l’Italia ha influenti rapporti commerciali con essa. Perché qui da noi circolano pochissime notizie?

Come già detto, il regime algerino fa fare buoni affari a tutti: compagnie petrolifere, industria bellica, multinazionali agricole, farmaceutiche, grandi aziende dell’edilizia e lavori pubblici… E di tutte le nazionalità. In Algeria ci sono Statunitensi, Britannici, Francesi, Tedeschi, Russi, Cinesi, Turchi, Paesi del Golfo…Ognuno ha il suo tornaconto, in un modo o nell’altro. E come nel mondo del crimine organizzato, anche in quello dei grandi affari “No news is good news”. Quando gli affari girano, meglio mettere tutto a tacere. Basta sapere ad esempio che nel 2001 c’è stata un’insurrezione generale nella regione della Cabilia – che sta a un’ora di macchina da Algeri – e nessuno ne ha parlato. Milioni di persone per le strade. Circa 150 morti tra i civili. Più di 3000 persone rimaste invalide a vita. Quasi due anni di scontri per le strade, caserme prese d’assalto da parte della popolazione disarmata, manifestazioni-fiume, occupazioni, autogestione… tutto passato sotto silenzio. 

Orano, mercato, 1979 (ph. Parodi)

Tu sei nato in Cabilia, la regione che ha dato di più, in termini organizzativi e di perdite di vite umane, alla rivoluzione per l’indipendenza e che – è giusto ricordarlo – lottò un decennio eroicamente contro l’invasione francese nell’800. Inoltre sappiamo che per tutto il tempo dell’occupazione non cessarono mai del tutto episodi di resistenza. Perché la popolazione e la cultura cabila sono state, diciamo, tradite dopo l’indipendenza dalle forze politiche che hanno ricostruito il Paese? E l’amazigh, la lingua berbera, osteggiata e addirittura proibita negli anni ‘80 e ufficialmente riconosciuta solo dopo dimostrazioni e rivolte pagate a caro prezzo dalla popolazione?

Il rifiuto della cultura Amazigh e la marginalizzazione della Cabilia e di altre aree amazighofone (berberofone) dell’Algeria e del Nord Africa sono dovuti a due fattori principalmente. Si parla spesso della Cabilia perché è la regione Amazigh più popolata, con circa 6 milioni di residenti, senza contare più di 4 milioni di cabili sparsi tra Algeri, altre città d’Algeria e la Francia. Esistono numerosi altri gruppi berberi in giro per il Nord Africa, dall’Oasi di Siwa, nel sud ovest dell’Egitto, fino al sud ovest del Marocco. Ma nessuna comunità è così importante numericamente. La marginalizzazione che colpisce queste regioni, quindi, è dovuta principalmente al fatto che negli anni ‘50, quando i Paesi nordafricani cominciarono ad accedere all’indipendenza, uno dopo l’altro, il vento girava verso il Nazionalismo Arabo. L’Egitto di Nasser attirava tutti i giovani vogliosi di libertà e di riscatto. Con l’indipendenza, il Panarabismo fu adottato in varianti diverse come ideologia ufficiale dei giovani Stati. E gli attivisti arabisti imposero la loro idea di scuola, di università, la loro versione della storia e della cultura ufficiale, e presero il controllo degli eserciti e delle amministrazioni. Tutto quello che non rientrava in una definizione esclusivamente araba (e musulmana: all’epoca la religione era in secondo piano) era escluso. La seconda ragione, che riguarda esclusivamente l’Algeria, è il fatto che la rivoluzione fosse stata fatta principalmente in due regioni amazighofone: la Cabilia e l’Aures. Dei grandi leader rivoluzionari il 90% era originario di queste due regioni. Così era anche con le truppe di partigiani. Ma al momento dell’indipendenza, nel 1962, gli ufficiali panarabisti che presero il potere arrivarono dall’estero, dai campi profughi in Marocco e Tunisia. Non avevano fatto la rivoluzione. E la loro unica legittimità erano gli appoggi internazionali (Paesi arabi e Paesi socialisti di allora). Il fatto che la Cabilia rimase fedele ai veri rivoluzionari, tentando anche una ribellione armata nel 1963, la mise definitivamente al bando della giovane nazione. 

Tu hai lavorato come educatore, all’inizio, in Cabilia. Poi ti sei trasferito in Italia dove, oltre a fare l’educatore, scrivi per varie testate e fai conoscere episodi della storia algerina anche recente. Di alcuni sei stato anche protagonista e testimone diretto. Vuoi raccontarci qualcosa?

I grandi movimenti di lotta in Cabilia tra gli anni ‘70 e gli anni 2000 sono stati dei veri movimenti di massa, nonviolenti, e altamente democratici. La loro connotazione principale è ispirata dalla cultura Amazigh, che predilige forme di organizzazione orizzontale senza leadership forte. Per migliaia di anni i villaggi della Cabilia sono state delle mini repubbliche autonome, che si mettevano insieme in federazione solo per affrontare nemici esterni. Così si organizzò il Movimento Culturale Berbero nato nel 1980, dopo la rivolta chiamata la primavera Amazigh (o berbera). Un movimento orizzontale, capillare, presente in ogni paese, città, quartiere, villaggio. Fatto di milioni di formiche attive nell’anonimato e un certo numero di animatori più in vista, nessuno dei quali era considerato o si considerava il leader. Oltre alla rivendicazione culturale e linguistica, gli attivisti del Mcb erano anche sindacalisti, attiviste femministe, animatori di sindacati studenteschi, fondatori delle prime associazioni per la difesa dei diritti umani…Io ero uno di loro: una formica tra tante altre formiche attive. Una delle realizzazioni più straordinarie del movimento fu lo “sciopero della cartella” del 1995-1996. Su appello del Movimento Culturale un milione di studenti rifiutarono di andare a scuola fino a che la lingua amazigh non venisse ammessa nelle scuole. Un’azione mai vista, enorme. Il movimento ottenne buona parte delle sue rivendicazioni. Ma morì subito dopo di stenti e di divisioni interne.

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La Carta Nazionale, la Costituzione, istituita nel 1976 dal Fronte Liberazione Nazionale, era frutto e simbolo della conquista dell’indipendenza dalla Francia, espressione di un particolare “socialismo” algerino e portatore di princìpi democratici ed egualitari. Affermava che lo sviluppo del Paese sarebbe stato a beneficio delle masse popolari. È stata rivista varie volte e riformata. Cosa si è perduto in questi 40 anni?

Come molte cose della vita, la Carta algerina del 1976 aveva lati luminosi e lati oscuri. Sanciva lo stato socialista e i diritti fondamentali acquisiti con l’indipendenza. Diritto a non aver fame, diritto ad avere un tetto sulla testa, diritto alla salute e all’educazione…Noi venivamo da un processo rivoluzionario abbastanza condiviso. E tutti gli algerini si sentivano proprietari della nazione liberata dalle catene dell’ordine coloniale. Ma nello stesso tempo ufficializzava la dittatura del partito unico, l’egemonia dei militari sulla società civile. In qualche modo tutti proprietari ma, se eri un dinosauro dell’apparato politico o militare, eri più proprietario degli altri. Nelle revisioni successive della Costituzione si è aperto il campo politico, sociale e culturale alla pluralità di visioni e opinioni. Ma in cambio ciò che era una volta di tutti è diventato di pochi. Come è successo in tutti i Paesi ex socialisti, i vecchi guardiani dell’ortodossia socialista sono diventati i baroni dell’economia di mercato. Hanno privatizzato tutto a loro vantaggio. Oggi in Algeria sulla carta abbiamo ancora tutti i diritti. Ma le strutture sono state svuotate del loro contenuto. La scuola per tutti c’è, ma forma milioni di analfabeti funzionali. L’Università è ancora gratuita ma forma dei laureati incapaci di tenere un ragionamento logico. Tutti hanno diritto alle cure ma gli ospedali pubblici sono dei grandi casermoni che curano poco e male. E tutto si deve fare nelle strutture private. Le risorse energetiche nazionalizzate nel ‘71 sono state consegnate di nuovo alle multinazionali. Le entrate di questo settore, che resta l’unica fonte di guadagno del Paese, sono usate dal regime per mantenersi in vita.

Un altro principio molto bello contenuto nella Costituzione del 1976 era la «promozione della donna e la sua partecipazione alla vita politica, economica, sociale e culturale della Nazione». Il Codice della famiglia del 1984, fermamente contestato da poche ma decise donne femministe, ha poi introdotto una serie di norme che, nei fatti, non sembra siano affatto coerenti con gli intenti originari post-rivoluzionari. Il Codice è ancora in vigore nella sua rigida forma originaria o sono stati modificati i suoi aspetti più reazionari?

Quella del Codice della famiglia è la prima concessione fatta dal Fronte di Liberazione Nazionale all’islamismo politico, che faceva la sua apparizioni sulla scena verso la fine degli anni ‘70. A parte l’Egitto dove i Fratelli Musulmani erano presenti già dagli anni 50. Il FLN era composto da varie tendenze politiche. La componente maggioritaria, prima e durante la guerra di liberazione nazionale, era composta da patrioti algerini, laici e che si potevano collocare in una sorta di social-democrazia, che volevano portare gli algerini verso uno Stato che garantisse educazione, salute e benessere per tutti. C’erano varie altre tendenze dentro: i liberali laici del partito dell’Unione Democratica del Manifesto Algerino, il Sindacato Nazionale dei Lavoratori Indigeni, l’Unione studentesca, il Partito Comunista Algerino, il movimento dei Riformisti musulmani, Nazionalisti arabi, militanti della causa berbera…

La prima Carta del Fronte di Liberazione, detta “Dichiarazione della Soumam” dal nome della valle della Soumam, in bassa Cabilia, dove fu organizzato il primo congresso di tutte le unità combattenti nel territorio nazionale, nel 1956, era un capolavoro di umanesimo laico. La Carta del 1976, se tradiva quella della Soumam nei suoi intenti universali e di pluralità politica, culturale e sociale e nella limitazione del potere dei militari, le rimaneva però fedele nello spirito di giustizia sociale e di laicità dello Stato.

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Negli anni ‘80, dopo la morte del presidente Boumedienne, per estro- mettere l’ala sinistra del Fln, la destra dei nazionalisti arabi si alleò con i nuovi movimenti islamisti. Che fiorirono sia dentro che fuori del Fln. E questo grazie anche a un forte sostegno delle potenze occidentali e ai finanziamenti delle petromonarchie del Golfo. L’islamismo politico è usato come cavallo di Troia per abbattere i regimi socialisti arabi. Uno dei segni forti di quella alleanza fu il Codice della famiglia, che introdusse in un Paese a costituzione laica una serie di leggi legate alla gestione dei rapporti familiari (matrimonio, rapporto coniugale, divorzio, tutela dei figli, eredità…) ispirata a una lettura medioevale del testo coranico e della tradizione musulmana. Dalla guerra civile in qua, i partiti al potere continuano a giocare a tira e molla con gli islamisti, li corteggiano per un po’ e li reprimono per un po’. Ma in fondo le concessioni del passato hanno dato alla loro ideologia ampi poteri sul mondo dell’educazione e sulla società. Ormai hanno modellato la mentalità del cittadino medio a loro immagine. E un ritorno a uno Stato autenticamente laico sarà lungo e difficile.

Nel 4° paragrafo la Costituzione affermava il rigetto dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dava un alto valore alla spiritualità dell’uomo e risalto al «rispetto della libertà di pensiero e di coscienza». Questi due aspetti sussistono ancora in concreto?

La pluralità di credi politici è una realtà ancorata nella vita sociale in Algeria e la libertà di espressione è abbastanza garantita. La stampa scrive quasi di tutto e ha poche linee rosse che non può superare. La situazione è diversa per la libertà religiosa invece. Sulla carta esiste e lo Stato ne è il garante. Qualche anno fa, la stampa vicina agli islamisti aveva protestato contro l’apertura sempre più numerosa di sale di preghiera per evangelisti attraverso il territorio nazionale. Le chiese evangeliste di matrice nordamericana praticano in Algeria, come ovunque, i loro metodi di proselitismo con l’ausilio di incentivi economici e sociali, e le conversioni sono a migliaia. La tradizione musulmana accetta che ebrei e cristiani possano praticare la loro fede “in libertà”, ma non tollera proselitismo e apostasia. La legge algerina non prevede ostacoli al cambio di religione. Il ministro degli Affari religiosi è intervenuto tagliando corto quelle polemiche. “Il ministero degli Affari religiosi è il garante della libertà religiosa” – disse all’epoca – “E se dei cittadini algerini si organizzano in associazione religiosa e presentano una richiesta per l’apertura di un luogo di culto, secondo le norme vigenti, io non posso che dare il permesso”.

Ma nella realtà le limitazioni della libertà di coscienza sono tantissime, di ordine sociale prima di tutto. Lo Stato spesso fa poco per proteggere le minoranze religiose, i non credenti e gli atei…E la polizia e alcuni giudici molto spesso usano una legge pensata contro “chi offende la religione musulmana” per punire, invece, o per lo meno creare problemi a chi non rispetta certi dettami come il digiuno del Ramadan o tiene discorsi ritenuti non conformi alla fede maggioritaria.

Storici, qualificati giornalisti e studiosi del terrorismo jihadista sono convinti che questo fenomeno che da circa due decenni coinvolge pesantemente anche i Paesi occidentali sia principalmente una guerra intestina, interna al mondo islamico. Sciiti e Sunniti, cioè, si contenderebbero la supremazia sulla variegata galassia di Stati di religione islamica. Sei d’accordo con questa tesi generale?

Non esiste una guerra interna al mondo dell’Islam per una egemonia culturale dei sunniti contro i sciiti, per la semplice ragione che quello sciita e quello sunnita sono due modi distinti di vedere e vivere la religione e il suo rapporto con la vita sociale e politica. E non basterebbe una vittoria militare per portare le persone a passare da un mondo all’altro. In realtà nessuno dei due blocchi è un monolite omogeneo. Sunna e Shia sono già due galassie che contengono tantissime tradizioni, interpretazioni e scuole di pensiero. Sarebbe come considerare la guerra d’Irlanda una guerra per l’egemonia culturale tra cattolicesimo o protestantesimo. Anche se il fattore religioso aveva un ruolo importante per definire le posizioni delle popolazioni, sappiamo invece tutti che la vera posta in gioco non è mai stata la religione.

È vero invece che c’è una guerra d’influenza tra l’Iran e le monarchie del Golfo. E questa guerra si fa tramite la diffusione di idee estremiste, il finanziamento e l’armamento di movimenti estremisti sunniti, da parte delle monarchie della penisola araba, da una parte. Dall’altra parte, l’Iran fomenta le ribellioni e fornisce finanziamenti e armi alle minoranze sciite presenti nei Paesi a maggioranza sunnita. Però l’obiettivo non è l’egemonia religiosa, ma quella politica e soprattutto economica. Tuttavia questa guerra d’influenza tra Iran e penisola arabica non basta a spiegare tutto. La questione è molto complessa, affonda le sue radici nella fine dell’impero ottomano e inizio della colonizzazione europea, nella scoperta dei più grandi giacimenti di petrolio e gas del mondo, nella seconda guerra mondiale, nei processi di decolonizzazione, nella questione israelo-palestinese, nella guerra fredda, etc…Ma questo forse è il caso di lasciarlo per un’altra discussione.

Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017

 

E tutti i cani di Bagheria si chiamarono Jack: entusiasmi per la “liberazione” che non cancellarono gli orrori della seconda guerra mondiale in Sicilia

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Sbarco delle truppe Usa in Sicilia ad Augusta (o Gela) nel 1943.Foto archivio dell’autrice

 

Ospite dell’Istituto Gramsci Siciliano lo scorso 4 maggio è stato il periodico on line dell’Università di Palermo «InTrasformazione, rivista di storia delle idee» che, con il più recente numero (vol.6,n.1,2017), regala un piccolo gioiello a cultori e appassionati di storia siciliana. Si tratta de La guerra in Sicilia (1940-1943), un e book scaricabile gratuitamente, che  racchiude i molti articoli scritti dal giornalista e scrittore Mario Genco e pubblicati nel tempo dai principali quotidiani di Palermo.

Andando ben oltre la mistica della “liberazione americana” il testo apre con una narrazione dell’orrore riversato sulla popolazione siciliana e su tutta l’isola, vittima di bombardamenti incessanti e spropositati da parte degli Alleati. Inclusi quelli sulla piccola isola di Favignana dove non vi erano obiettivi militari e però vennero uccisi 77 civili, tra cui molti bambini.

Il ritmo serrato del racconto e l’asprezza del lessico catapultano il lettore dentro una serie di fotogrammi ove il fragore delle bombe si percepisce ancora più dell’immagine. La contabilità di morti, mutilati e feriti è impressionante, i danni alle città, ai monumenti e alle coltivazioni incalcolabili.

Citati numerosi e assurdi episodi − come la resa di Lampedusa ad un unico sergente pilota della Raf, spacciata per “conquista” – che offrono spazio all’autore per ridicolizzare l’altisonante retorica bellica. Si parla dello sbarco, del generale Patton a Palermo, del saccheggio di 6.000 bottiglie di vino e liquori pregiati nella cantina di Palazzo Orleans, della distruzione di Palazzo Lampedusa e di tanto altro.

 

Sicilia, estate 1943, generale Patton, comandante V Armata
Sicilia 1943: generale George Smith Patton, comandante VII Armata. Foto archivio dell’autrice

 

 

«Ho pensato di affidare il contenuto di questo libro agli ectoplasmi» − ironizza Genco, riferendosi al formato digitale del testo – ma il suo intrinseco valore storico, sostanziato da una vastissima bibliografia, avrebbe preteso ben di più. Poco male, dal momento che la tecnologia ci consente di stamparlo a casa e il nostro intuito di dargli un bel posto in libreria.

Nel suo interessante intervento sul tema, in particolare a proposito dell’adesione dei Siciliani al regime fascista, il professore Giuseppe Campione, − eclettico protagonista della cultura e della politica in Sicilia − ha spiegato che vi fu un consenso solo da parte di alcune categorie sociali che ne beneficiarono. L’irrompere della guerra e la conseguente drammaticità delle condizioni di vita fecero sì che il consenso si esaurì, in realtà perché non c’era mai stato.

Per il giornalista Franco Nicastro il dissenso al Fascismo si cominciò a manifestare all’inizio del ’42, quando «i Siciliani cominciarono a vedere i costi della guerra, i devastanti bombardamenti, la fame». La ratio degli attacchi aerei fu una vendetta per le atrocità commesse dai fascisti in guerra e intendeva minare l’umore della popolazione e far capire l’inutilità della resistenza. Atroce il massacro compiuto ad Acate, l’antica Biscari, da parte dell’esercito degli Stati Uniti, crimine di guerra in cui vennero uccisi 76 prigionieri, preceduto da una strage di civili inermi.

Alfio Mastropaolo, docente di Scienza Politica, ha ricordato che se l’entusiasmo generale per la “liberazione” fece quasi dimenticare la potenza dei bombardamenti inglesi e statunitensi, la disorganizzazione di una guerra fatta da “pasticcioni” e l’assenza dello Stato giustificò il sorgere in Sicilia del movimento separatista.

Siti di propaganda per combattenti e contromisure

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bandiera della “Rivolta Araba” (1916-1918)

Anni fa due piccolissimi bambini di un Paese islamico furono intervistati in una trasmissione televisiva per dire qualcosa sulla loro  madre, una giovane jihadista che si era fatta esplodere in un attentato, e la scena fu riproposta anche da una emittente italiana. La bambina, di circa sette anni, seduta compostamente, rispose “La mamma ha fatto martirio”, mentre le parole del fratellino, troppo piccolo per comprendere anche il contesto, furono soltanto “Io vado all’asilo”.  Volendo il giornalista mostrare l’assurdità di quella tragedia, nei fatti puntò le telecamere sulla mancata elaborazione di un dolore troppo grande per essere espresso.

Può essere grande l’attrattiva esercitata sui giovani da siti che sollecitano l’adesione ad un progetto di rivoluzione centrato sul jihad, che, forte anche delle sue promesse, si presenta già nella sua essenza come qualcosa di eroico e salvifico. Nel breve saggio Pensare il radicalismo islamico (in “Prometeo”, n.128, Mondadori, 2014) Claudio Vercelli, docente di storia contemporanea all’Università di Torino, ha spiegato bene la natura prettamente politica del fondamentalismo, consistente in un moderno movimento di mobilitazione “…verso un obiettivo finale che non è stato ancora raggiunto”.  “Il nocciolo del fondamentalismo” – scrive Vercelli – ” non sta in ciò che promette, ma nella capacità di indurre gli affiliati a cercare di tener fede a tale promessa, convincendoli della necessità di ripetersi negli sforzi…”. Un soggetto politico di nuova concezione che si può nascondere ovunque  e in nessun luogo e che reinventa le modalità dello scontro.

Uno dei compiti più difficili degli Agenti scelti che lavorano costantemente sul Web a livello mondiale è smascherare la vera identità di uomini e donne che si nascondono nei vari social dietro profili ed account fasulli, corredati di foto altrettanto false.  Oltre che un compito è una sfida, sia perchè la reale identità di questi individui si disperde e viene occultata  dal groviglio consentito dalla rete, sia per il fatto che tanti vengono individuati ed eliminati ma altrettanti  riappaiono sotto altra veste. Considerazione che vale naturalmente anche per la quantità di truffatori che talvolta riescono ad  acchiappare persone sprovvedute o che non conoscono bene i mezzi che usano. Sono state anche trovate e disattivate quantità di  app , lanciate dall’Is (e da Talebani) per scambiare con i telefoni cellulari messaggi criptati. Alcune poi sono appositamente dedicate ai bambini, il cui indottrinamento è considerato essenziale da questi criminali.

Da un articolo sul Corriere della Sera del 2 agosto scorso, scritto da Andrea Galli, abbiamo avuto particolari su una vicenda di corrispondenza, in Italia,  fra aspiranti terroristi, veicolata da Internet, ma  fortunatamente bloccata  in tempo dalle indagini dei Carabinieri e del Ros di Milano. Un magazziniere pakistano residente dal 2003 a Vaprio d’Adda (Farook Aftab) scambiava in chat informazioni, foto e propaganda (jihadista ovviamente) con un albanese (tale Idbrahim Bledar) abitante in un paese vicino. Pare che i due, scoperti ed espulsi dall’Italia, non si siano mai incontrati nella realtà e però comunicavamo molto bene; Bledar anche con Maria Giulia Serio, la ventottenne italiana che, abbracciata la fede islamica, si è trasferita in Siria assieme al marito albanese nel 2014, per unirsi ai terroristi dell’Is.

E’ alla Siria ed alla Libia che bisogna guardare – secondo il giornalista Galli – per andare alla ricerca di altri possibili attentatori mentre c’è chi si spinge oltre, intravedendo nella Somalia più profonda (dove agiscono i jihadisti di Al Shabaab) segnali e movimenti utili per comprendere ciò che il futuro potrebbe riservare al mondo nell’ambito di questa imprevedibile guerra dichiarata nei fatti dal terrorismo fondamentalista. Questa ipotesi è stata avanzata dal reporter di guerra Domenico Quirico  – in un servizio pubblicato da “La Stampa” il  15 agosto scorso – profondo conoscitore dell’argomento, il quale, inviato in Siria nel 2013, fu fatto prigioniero dall’Is e vi rimase per sette mesi. Potè poi fortunatamente ritornare in Italia.  “I margini delle cose spiegano meglio quanto accade…è li che bisogna cercare…Chi cerca al centro si perde nella illusione di capire…Qui (Quirico parla della Somalia), in questa periferia del mondo, margine apparente del Califfato, maturano le sue implacabili metamorfosi, si preparano le micidiali sorprese che ci riserverà domani.”

Le motivazioni che possono spingere un essere umano, per lo più sono giovani,  a muoversi verso una direzione totalitaria che lascia alle sue spalle ogni residuo di ragione è diventato purtroppo un argomento di rilievo in quasi tutto il mondo. Si indagano le ragioni storiche e sociali del fondamentalismo e non mancano gli studi di psicologia sociale nel tentativo di delineare i “profili” degli attentatori terroristi che si dichiarano di fede islamica.

Qualche informazione su quello che è considerato il primo terrorista europeo, Khaled Kelkal, francese di origine algerina, ucciso dalla Polizia nel  2005 nei pressi di Lione è contenuto nell’articolo con il link riportato sotto

http://www.carteggiletterari.it/2016/10/26/1995-viene-ucciso-in-francia-il-primo-terrorista-jihadista-cosa-e-cambiato-da-allora/ ,  pubblicato dalla rivista “Carteggi letterari critica e dintorni”

Chuck Norris vs Kommunism. Videocassette (Usa) per la libertà

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Romania, anni ’80. La riunione emozionante di una famiglia qualunque davanti ad uno schermo casalingo per assistere alla proiezione di una videocassetta sgangherata viene bruscamente interrotta. Bussano alla porta numerosi e minacciosi agenti  della polizia politica, i bambini vengono chiusi in una stanza per non assistere. Dopo quasi due ore è finito l’interrogatorio, per fortuna senza arresti o violenze e le cassette VHS però, proiettore compreso, vengono sequestrati. Cosa ci può essere di tanto pericoloso in quel materiale? Semplicemente la libertà. E in un Paese con una dittatura infame e affamante come quella di Nicolae Ceausescu (e famiglia) qualunque film che venga  dall’Occidente è proibito. Non importa che si vedano le scazzottate di Van Damme o gli spari di Chuck Norris o Sylvester Stallone che fa jogging. Tutto per i Rumeni ha il sapore della libertà,  mette davanti ai loro occhi paesaggi, situazioni, ambienti, auto e vestiti di lusso che non hanno mai visto, che li diverte e li fa sognare.

E la prima a sognare è Irina Margareta Nestor, traduttrice e doppiatrice che viene ingaggiata da Teodor Zamfir, personaggio piuttosto ambiguo, ma audace e con molte conoscenze, il quale compie due operazioni insieme: si arricchisce e fa un dono alla popolazione. Organizzatore, nella sua abitazione,  di un piccolo studio dove arrivano clandestinamente dall’Urss e dai Paesi confinanti centinaia di videocassette che vengono rapidamente tradotte e partono per ogni località, anche remota del Paese, nascoste sotto i bagagliai e in tutti i modi possibili. Non importa se i nastri sono così rovinati che “a volte le scene dovevamo immaginarle…”racconta ridendo uno dei testimoni intervistato nel film. E, forse per l’ironia presente, il racconto diventa leggero e suggerisce che anche nei momenti peggiori ci si può riunire ad altre anime e insieme andare avanti con un po’ di allegria, sperando.

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Irina Margareta Nestor oggi, durante le riprese del film

 

La voce di Irina – che nel doppiaggio presta la sua voce  a tutti, uomini, donne, bambini, diventa un simbolo, come al tempo Radio Londra per l’Europa antinazista. E lei racconta che, nonostante la paura, continuava a fare quel lavoro perché era anche per lei l’unico modo, in una realtà opprimente e poliziesca, di dissentire e respirare.

Nel bellissimo docufilm di Ilinca Calugareanu, Chuck Norris vs Communism (2015),  proiettato giorni fa in un cineclub di Milano, e spero presto a Palermo, sono presenti una folla di persone che vissero di queste emozioni. Una di loro dice “i semi gettati dalle videocassette infine esplosero in una rivoluzione”. Il film, presentato in vari Festival, ha ricevuto meritati premi.