Quale titolo per il teatro Garibaldi?

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Nella sintesi somma dell’articolo che ha aperto il 25 maggio le pagine di Palermo della “Repubblica” sullo stato di alcuni beni culturali storici della città la complessa storia dell’affascinante teatro Garibaldi non trova alcuno spazio. Appiattita e banalizzata dall’accento posto soltanto su questi ultimi due mesi, e da un ambiguo accenno di “abusivismo” da parte dell’Associazione Teatro Garibaldi, che ha avuto affidato ufficialmente lo spazio dal Comune per due anni. Scavalcando il generale blocco di finanziamenti per la cultura che ne immobilizza l’uso per spettacoli di ampio respiro, potendo utilizzare soltanto cifre irrisorie, il teatro ha invece funzionato sino allo scorso aprile con pervicace continuità anche come galleria d’arte, spazio per laboratori teatrali e performance musicali di qualità, e come biblioteca di opere di teatro e spettacolo.

Va detto che al momento attuale è stato presentato dall’Associazione – con altre tre storiche compagnie teatrali di Palermo, l’Opera dei Pupi di Mimmo Cuticchio, la Compagnia Franco Scaldati e il Teatro Libero – il progetto triennale Meteikos per accedere ai finanziamenti europei. Il progetto coinvolge tre teatri europei partner, dalla Spagna, Polonia e Francia.  Un po’ eccessivo parlare di “declino senza fine” o di “flop”, titoli dati all’articolo del prestigioso quotidiano che non descrivono e non informano. All’inizio del mandato – è il caso di chiarire – presidiare la struttura (dormirci dentro) ha significato entrare in un luogo sprovvisto di tutto, perfino di un lavandino – ha spiegato Matteo Bavera, attuale direttore artistico e regista – e anche oggi stare lì obbliga ad un incontro quotidiano ravvicinato con un contesto difficilissimo, che considera normale financo un allevamento di pitbull dietro il teatro.

Cosa è oggi l'”esistente” del teatro Garibaldi? “teatro instabile, per le sue vicende altalenanti, è oggi un bene culturale in continuo movimento che ha agito negli anni anche come elemento rivitalizzante per l’intero contesto in cui si trova, la Kalsa. Sembrava irredimibile questo antichissimo quartiere, oltraggiato dai bombardamenti e dall’incuria quando i ruderi del teatro furono per caso riscoperti nel 1996 da Franco Scaldati e Matteo Bavera che intuì le potenzialità di questo luogo e ne fece l’oggetto di una progettualità originale e duratura. Il teatro aveva subìto lunghi periodi di chiusure e riaperture e si era trasformato in spazio senza strutture. Un luogo senza barriere in cui scena e spettatore possono fondersi e dove al posto di un cielo dipinto c’è un pezzo di vero cielo, da guardare e da respirare. Ma proprio questa precarietà divenne il suo tratto caratteristico in quanto simbolo ideale di una città che sembrava immobile e proiettata verso il degrado generale.

Vide anni di prestigioso teatro, a cominciare dal progetto della “Trilogia shakesperiana” di Carlo Cecchi – allora direttore artistico – e Matteo Bavera nel 1999; e poi lavori di Carmelo Bene, Peter Brook, Antonio Latella, Emma Dante, Franco Scaldati, Davide Enia e tanti altri che, con opere ricercate e innovative, hanno fatto promuovere il Garibaldi membro dell’Associazione Teatri d’Europa, creata da Giorgio Strehler. L’imponente e ambiziosa ristrutturazione iniziata nel 1997 e rimasta incompiuta, molto poco conservativa e colpevolmente irrispettosa del progetto iniziale, ne ha modificato l’aspetto facendo mancare al teatro elementi fondanti come il palcoscenico e ogni struttura tecnica e di movimento, compresi gli impianti elettrici. Da allora ritardi nell’assegnazione, un’ulteriore chiusura di sei anni, un’occupazione molto pubblicizzata ma forse intempestiva di artisti e maestranze varie e gravi atti di vandalismo sono stati pesantemente d’intralcio per la fruibilità di questo bene culturale storico della città.

Garibaldi in Palermo
UNSPECIFIED – CIRCA 2002: Garibaldi in Palermo, 1860. Expedition of the Thousand, Italy, 19th century. (Photo by DeAgostini/Getty Images)

A Palermo nel 1863 gli spettatori del teatro Garibaldi, prima ancora dello spettacolo, ebbero una visione speciale. Con la bellezza dei loro corpi nudi le statue attorno alla fontana di piazza Pretoria quasi lasciavano in ombra l’Eroe nazionale, soggetto principale dell’enorme sipario opera del pittore Giuseppe Bagnasco, che riportava su tela una scena storico-allegorica così cara ai Palermitani per farla rivivere ad ogni spettacolo. La visione poi del Generale stesso sul palcoscenico e il discorso che rivolse al pubblico fece esultare l’intera platea. La fantasiosa e romantica iconografia garibaldina creata a Palermo dai più famosi artisti dell’epoca, pittori, scultori e incisori non trovò collocazione soltanto nelle aree museali, al Museo Nazionale all’Olivella, ora Museo Salinas, e successivamente al Palazzo Abatellis ed alla Società di Storia Patria. Una delle opere più significative nel rappresentare il gusto nazional-popolare post unitario che descrive l’ingresso trionfale del Generale Eroe a piazza Pretoria nacque non per rimanere immobile su una tela, ma sipario vivificato dall’azione scenica nel teatro Garibaldi. L’Eroe, venerato a Palermo quanto Santa Rosalia, è circondato da patrioti e popolani scalzi, acclamato dalle finestre del Palazzo Pretorio e persino le statue delle divinità, con le loro splendide nudità, partecipano alla festa.

Naturalmente il sipario non è più esistente ma è rimasto, ben conservato, tra i disegni di Palazzo Abatellis, uno studio particolareggiato che il pittore Bagnasco tracciò per riportarlo su tela nel 1863. Come racconta la storica dell’arte Evelina De Castro in un suo bell’articolo sulla rivista Kalòs (anno 23, n.2), il sipario del teatro Garibaldi “divenne emblematico dell’epopea garibaldina” e fu conservato a lungo. Non sappiamo se per realizzarlo l’artista sia dovuto salire su un ponteggio e se l’abbia dipinto con i lunghissimi pennelli usati ancora oggi per creare le scenografie teatrali, ma il risultato fu grandioso tanto da divenire una delle perle offerte all’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891, in un’epoca in cui i teatri erano i luoghi di cultura. Gli spettatori a teatro quella sera si trovarono di fronte ad una scena non di fantasia o di soggetto mitologico, ma narrante un episodio di storia contemporanea accaduto a pochi passi dal sito del teatro. Moderno come un reportage fotografico o un video clip di oggi.

Già verso la fine degli anni 1860 la sorte del piccolo ma fascinoso teatro palermitano iniziava ad essere segnata per i progetti di altre strutture, più sontuosi, come il Politeama ed il teatro lirico Massimo che avrebbero soddisfatto il desiderio di partecipazione alla vita culturale della ricca borghesia emergente. Ma anche allora non sfuggiva che l’amministrazione comunale si curasse poco di tenere in vita l’esistente, come il vecchio mercato di Porta S. Giorgio che “invecchia, quasi vergine”. Seppure contestati da parte della popolazione in quanto grandiosi o superflui ed eccessivamente lussuosi – come ricorda lo storico Orazio Cancila in Palermo – questi futuri spazi scenici serviranno al meglio il desiderio della città di autorappresentarsi come metropoli moderna e à la page. E per il teatro Garibaldi iniziò, allora effettivamente, il declino.

Sulla Kalimera (pericolosa e indecente) da Novorossisk al Pireo

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area proclamata “Repubblica del Ponto” dopo la prima guerra mondiale

Quante patrie a ognuno è dato avere? Quante se ne potevano sopportare?

Dal romanzo storico di Emidio D’Angelo Eravamo a Trebisonda, pubblicato di recente, riprendo alcune delle storie, vere, arrivate a noi attraverso la voce narrante di Lefteri, di Stavros, di Ghiorgos. Trascorso quasi un secolo da questi avvenimenti, il loro ricordo, senza questo testo, il primo in lingua italiana, sarebbe diventato per noi sempre più evanescente se affidato soltanto alle fonti storiche ufficiali e ai reperti di pubblicistica sull’argomento. Di quali fonti inoltre si tratta? Chi dovrebbe ricordare che migliaia di Greci pontini furono costretti a lasciare drammaticamente  le loro case, il lavoro, le città dove avevano sempre vissuto sulle coste del Mar Nero? Non lo fanno certo i Turchi, i quali ancora oggi non sono neanche disposti a riconoscere di avere compiuto un massacro, un genocidio ai danni della popolazione armena nello stesso periodo. Quest’ultimo argomento è considerato tuttora un tabù e liquidato sbrigativamente come “il problema armeno”- così mi è capitato di leggere mesi fa  in una storia dell’Impero ottomano scritto da una docente universitaria turca. Potrebbero forse farlo testi russi, quando la popolazione esule greca pontina che  si  era rifugiata in parte in città russe dell’altra sponda del mar Nero come Novorossirk e Rostov era stata penosamente sottomessa pure dalla nascente Unione sovietica?  E forse neanche  i Greci della madrepatria potrebbero voler ricordare troppo una storia che, in qualche caso – come racconta il testo – non li vide molto generosi nei confronti dei cugini greci del Ponto, considerati, appunto, lontani parenti, scomodi in quel contesto storico. Per meglio capire. La Grecia si trovava in uno stato di grande povertà, sfiancata sin dal 1912 dalle Guerre balcaniche, dal tornado della seconda guerra mondiale, compreso il tradimento delle forze alleate che non mantennero la promessa di farle avere i territori dell’Asia minore, del Ponto cioè, quindi dalla guerra contro la Turchia (1919-1922) cui seguì anche la perdita del bel porto di Smirne. Ciò che avvenne viene comunque definito come una catastrofe.

Nella prima parte della recensione avevo fatto percorrere  in poche righe  alla famiglia di Lefteri un lungo percorso di esilio forzato che li aveva portati da Trebisonda all’opposta sponda del mar Nero, zona russa divenuta sovietica.  Avevo accennato al clima di violenza e persecuzioni che bande di turchi, sostenuti e foraggiati dal nuovo movimento politico dei Giovani Turchi, avevano creato, al solo scopo di costringere tutte le  etnie diverse, e quindi i numerosi Greci, a scappare dalle città dell’Asia Minore lasciando ai Turchi tutti i loro beni. Presi alla sprovvista da tanta violenza inaspettata i partigiani greci in Anatolia  non furono in grado di organizzare una vera resistenza, in luoghi che erano sempre stati pacifico incontro di civiltà diverse.

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Una delle pagine più coinvolgenti ricorda i magnifici roseti di via Kostantinov a Novorossisk  quando un corteo di protesta di contadini russi resi poverissimi dalla collettivizzazione forzata, fu travolto e spazzato via dall’artiglieria e cavalleria sovietica e i centomila petali di tutti i colori si mischiarono al sangue dei disperati. La narrazione proprio di questo episodio credo sia voluto dall’autore il quale – se nella postfazione dichiara come scrivere di queste tragedie non voglia in nessun modo “costituire un atto di accusa per gli eredi o per i governi dei Paesi dove i fatti sono avvenuti”- ha voluto comunque rimarcare che la violenza e la sopraffazione non sono  stati una peculiarità del nuovo governo turco all’epoca dei fatti, ma hanno animato alla pari  i fucili e gli squadroni dei giovani e promettenti Soviet, sia verso gli stranieri che verso il popolo russo.Con le proprietà requisite, stavolta dai soviet, e un clima divenuto pesantissimo, i nostri Greci si trovano a dovere abbandonare anche questa seconda patria.

In un’altra pagina il drammatico viaggio di migliaia di profughi sulla nave-merci Kalimera nel mare arrabbiato – dopo essere stati depredati delle loro misere provviste e cibo prima dai soldati russi alla partenza, poi dai Rumeni al passaggio dalle loro coste – li  spoglia della loro identità per assimilare il loro destino a quello dei tanti disperati che oggi arrivano o non arrivano sulle coste italiane, turche, greche sugli indecenti barconi, dopo avere attraversato migliaia di chilometri in terra africana e asiatica ed essere stati derubati da delinquenti, soldati e terroristi. Ma la sorpresa forse più amara è l’accoglienza tiepida che il giovane Lefteri e gli esuli pontini riceveranno al loro arrivo nella sognata Grecia, che si mischierà per sempre alla lacerazione per le patrie perdute, abbandonate.

 

I Greci del Ponto.Una tragedia poco conosciuta in Italia

trebi copiaPer raccontare quella che definisce “l’Odissea dei Greci del Ponto” lo scrittore Emidio D’Angelo fa parlare soprattutto Lefteri, un giovane adolescente figlio di una famiglia greca che da generazioni vive a Trebisonda, porto sul Mar Nero.  Dal 1917 circa, gli storici abitanti del Ponto, costa nord orientale dell’Anatolia, iniziano a subire forme di intolleranza da parte del moribondo Impero turco che ha appena perso e sta perdendo parti consistenti di suolo e non si rassegna al ridimensionamento dei suoi confini ed alla presenza di popoli di diversa etnia sul suolo turco. La Turchia deve essere solo dei Turchi. Gli Armeni – protagonisti e vittime del genocidio di massa ancora oggi non riconosciuto ufficialmente dal governo turco – avevano subìto anche  a Trebisonda, circa tre anni prima, il rastrellamento della popolazione maschile e  in città- narra Lefteri – erano rimasti solo bambini, anziani, donne. Un amico di giochi armeno gli ha detto che suo padre è “stato portato via due anni fa insieme ad altri uomini per andare a lavorare in Mesopotamia e nel Caucaso”.

A parte qualche sporadico episodio di insofferenza da parte di piccole bande di bulletti turchi, Lefteri continua ad attraversare quasi tutti i quartieri della sua città, sempre in cerca di scarpe da lucidare. E’ una famiglia molto povera la sua e lui decide di mettersi a fare il lustrascarpe perchè non vuole essere inchiodato in una bottega come garzone e perchè si diverte a girare e a scoprire. Ha fede nella coesistenza pacifica di Turchi, Greci, Armeni, Ebrei, Russi poiché è quello che ha sempre visto. Qualche piccolo dubbio – forse – quando il nonno gli spiega che “furono i greci di Mileto a fondare Trebisonda otto secoli prima che nascesse Cristo…i turchi arrivarono solo qualche  centinaio di anni fa dalle steppe dell’Asia…e costrinsero i greci a lasciare le coste del Ponto per rifugiarsi sulle montagne…e noi pontici siamo sempre stati un popolo senza Stato e senza esercito…”.

A piccoli passi si insinua la tragedia che vivranno tantissime famiglie nate e vissute nel Ponto e che si sono trovate nel mezzo di un terremoto politico in un momento storico recente e crudele a ridosso di una guerra mondiale che ha grondato sangue e del sorgere di nuove potenze mondiali. Perché questo pezzo di storia è rimasto così in ombra finora in Italia? L’Anatolia è proprio così lontana oggi?

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. da J. Hondius, J. Jansson, Nova Europae Descriptis, Amsterdam 1638 (pubblicata dalla rivista mensile Limes, marzo 2016). Il Mar Nero è indicato col nome di Pontus Euxinus.

 

Con ritmo lento ma implacabile  è descritto che una pacifica comunità inizia ad essere preoccupata poi intimorita da vaghe notizie di scontri e incidenti con i Turchi, da voci di uccisioni di greci e sparizioni, dalla visione di cortei  di individui ritenuti “scalmanati”  che agitano con fare aggressivo e minaccioso striscioni con dipinta la mezzaluna e le parole “LA TURCHIA E’ DEI TURCHI”. Ritroviamo la famiglia di Lefteri alla fine del romanzo, che romanzo non è, esule nella città russa di Novorossisk, sulla sponda opposta del mar Nero dove è fuggita contando anche sul legame religioso con la Russia, l’Ortodossia.

Di lì a poco, siamo all’inizio del 1920, la città viene occupata dai soldati russi rivoluzionari  e membri dei Soviet che,- si diceva – fossero atei. Il porto di Novorossisk comincia a spegnersi economicamente perché circola sempre meno danaro, iniziano a verificarsi risse tra la popolazione russa e i Greci pontici, divenuti apolidi e poveri. E presto arrivano anche  i controlli  socialisti, la riscossione di tasse mensili indipendentemente dai guadagni e pesanti restrizioni miranti a regolamentare la vita quotidiana.

Un romanzo storico che è sorretto e impreziosito dalle testimonianze, vere e tangibili, di alcuni dei suoi personaggi che l’autore ha conosciuto molti anni fa e che danno al testo un colore e una forza speciali. Grazie a questo autore, senza compiacimenti letterari, parlano in modo molto semplice Lefteri, Artemisia, Nicos e gli altri testimoni perchè è così che deve essere.E non ci potrebbe essere un’immagine più potente delle loro parole per gridare il dolore che mette insieme tutti i popoli oppressi della terra.

 

 

Tutti al galoppo

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Ad Orano insegnavo materie letterarie nelle classi medie di una piccola scuola organizzata per i figli degli operai e tecnici italiani dipendenti della Saipem che lavorava al terminal di Arzew (35 km da Orano), parte della costruzione della prima condotta sottomarina di trasporto del metano algerino da Hassi R’Mel in Italia, attraverso la Tunisia. Attualmente si sta costruendo un ulteriore gasdotto  che trasporterà il metano in Sardegna (che ne è priva) e Toscana, alla massima profondità mai raggiunta (m.2885). La realizzazione del progetto ha però subìto uno stallo, causato dalle comprensibili  opposizioni di natura ambientalistica sollevate dalla popolazione algerina e dagli abitanti della Sardegna ma anche per disaccordi di tipo economico tra le varie aziende partner del progetto.

La decisione di partire da soli e lasciare le famiglie in Italia era in genere presa dai lavoratori con un contratto a breve termine, i quali vivevano in un campo attrezzato vicino agli impianti e sceglievano di lavorare anche la domenica dal momento che non esisteva nessun genere di svago.  Chi doveva stare due o tre anni aveva garantita una bella abitazione in centro città e l’istruzione elementare e media per i figli.

Naturalmente questo non bastava affatto ai piccoli che si sentivano fuori posto e deprivati di tutti i generi di divertimento e di consumo che già negli anni settanta si erano diffusi a livello di massa. Io cercavo di incuriosirli con argomenti al di là dei libri di testo e, inutilmente, di modificare l’atteggiamento mentale – alimentato purtroppo dalle famiglie stesse – che li portava a considerarsi quasi una specie diversa dagli abitanti locali. In un tema uno dei ragazzini più grandi lamentava di trovarsi male in Algeria dove non poteva giocare a calcio perché non c’erano ragazzi della sua età. La più completa estraneità tra queste famiglie e gli Algerini era suggellata dal mancato desiderio di imparare la lingua francese, accresciuta da diffidenza e nessuna conoscenza della storia locale.

Pensai allora di creare un’occasione di divertimento, qualcosa di speciale per questi bambini. Ero stata una o due volte in un centro turistico sulla costa, a pochi chilometri dalla città, dove c’erano dei bei cavalli da montare e avevo provato l’ebbrezza del galoppo immersa nella natura. Veri purosangue berberi come quelli ammirati nei circhi da bambini!  Era prevista la presenza di uno stalliere-accompagnatore con tanto di turbante, che montava senza sella e non parlava una parola di francese. Non ci sarebbe mai più stato – secondo me  – un contatto più verace di questo con la realtà dell’Algeria, i suoi paesaggi e i suoi abitanti.

Così organizzai la gita con quattro o cinque bambini elettrizzati dalla novità e finalmente divertiti. Andammo coi cavalli al passo verso un luogo incantevole, alberato, dove non si vedeva un’auto. E sarebbe andato tutto bene se alla nostra guida non fosse venuto in mente di assestare un bel colpo di frustino al mio cavallo e a quello di Elena, una mia allieva di undici anni. Gli animali partirono al galoppo come missili ed Elena fece un volo, rimanendo svenuta a terra qualche secondo. Un ingiustificabile incosciente. Il mio terrore fu placato soltanto dal fatto che la bambina non si era rotta da qualche parte e sembrava mantenere intatte tutte le funzioni cognitive e l’episodio si concluse senza clamore, per mia fortuna.

Anche in Algeria, in varie zone, oggi purtroppo si verificano azioni terroristiche praticate da bande armate di delinquenti jihadisti legati all’Isis o come quella del 2013 ai giacimenti di gas di Al Amenas da parte di Al Qaeda (L’Algeria trema su Limes, febbraio 2013). Attacchi diretti anche talvolta contro la popolazione Tuareg, accusata di praticare un islamismo pacato. Alcune fonti sostengono che qualche gruppo di “uomini blu” abbia invece collaborato con i terroristi. L’unica cosa certa è che i Tuareg da decenni sono in lotta con i governi degli Stati del Sahel perché rivendicano una loro autonomia e indipendenza.

Le stesse organizzazioni turistiche mettono in guardia dai pericoli presenti in un itinerario di viaggio in Algeria che non si limiti alle principali città. Finito l’anno scolastico scalpitavo per tornare in Italia e non organizzai, come pure desideravo, un tour nelle oasi più sperdute del Sahara, oggi troppo azzardato.

 

Flic.Un interrogatorio

 

lupo ritagl.Sul finire degli anni settanta in Algeria si avvertiva con chiarezza che il potere era in mano ai militari. La guerra d’indipendenza era finita da appena 13 anni e il governo era affidato al colonnello Houari Boumedienne, già capo di stato maggiore dell’esercito rivoluzionario, che rimase in carica dal 1965 al 1978. Ma anche oggi – a detta di coloro che seguono da vicino gli avvenimenti del Maghreb come il blogger algerino Karim Metref e il giornalista Mostafa El Ayoubi – l’organizzazione politica più potente dell’Algeria è l’apparato militare. Il che per inciso rappresenta teoricamente  una barriera contro il proliferare dell’islam radicale nella sua materializzazione terroristica del Daesh.

Ho sempre pensato che se, mentre stavo lì,  nessuno mi ha mai molestato o adescato in qualche modo ciò era dovuto alla paura  che tutti avevano delle ripercussioni penali che un simile gesto, considerato molto più grave che da noi,  avrebbe provocato. La presenza dei flic era ben visibile, per esempio anche in occasione di una semplice lunga coda a serpentone per entrare in un cinema di Algeri. La loro attività consisteva nel distribuire – secondo me a casaccio – colpi di manganello sugli aspiranti spettatori, solo locali, per tenere la fila in ordine.

I divertimenti comunque erano veramente pochi per tutti, Algerini e stranieri. Una sola volta andai a teatro, mai al cinema, forse perché i film erano solo in arabo o perché non c’erano cinema che potessi frequentare con serenità. Come ho scritto in un altro episodio non c’era un solo locale pubblico a presenza mista dove le donne  potessero andare. Mi mancava un posto dove andare a ballare. Soltanto in privato nelle feste familiari, soprattutto matrimoni, era possibile per tutti scatenarsi nella danza, ma distinti per genere. Anche perché il tipo di danza che ho potuto vedere, quella diffusa tra la gente del posto, quasi uguale per i due sessi e diversa dalla sofisticata danza del ventre solo femminile, consisteva in velocissimi movimenti del bacino, richiamo immediato alla sensualità-tabù.

Quell’unica rappresentazione teatrale fu una performance surreale. Ad Orano, a due passi dal deserto, uno spettacolo folcloristico di balli e musiche dell’URSS caucasico con costumi pesantissimi  e lunghi parrucconi impolverati. Ma, si sa, i due Paesi erano amici e l’Algeria, per la sua storia recente,  ricopriva il ruolo di rappresentante africano del socialismo, di difensore dei diritti dei popoli oppressi. Per questi motivi costituiva un porto sicuro anche per i rifugiati dalla dittatura cilena ed ebbi modo di conoscerne qualcuno.

La stessa polizia però, che funzionava come deterrente da eventuali molestie degli Algerini nei miei confronti, in un caso specifico che mi riguardò compì decisamente un abuso di potere che mi procurò pura angoscia per molto tempo. Con l’ingenuità di un Pinocchio e molto arrabbiata per il furto dell’unico gioiellino che possedevo, una catenina d’oro, decisi che era il caso di denunciare l’episodio al più vicino commissariato di polizia, come si fa da noi. L’unica persona che poteva averla presa era una persona di servizio  e così dissi; ma non avevo prove. Poiché mi ero fatta accompagnare da un amico italiano mi fecero parecchie domande più che registrare la denuncia, ma il tutto nei limiti di un normale colloquio. Poi mi chiesero di ritornare il pomeriggio e questa volta non c’era nessuno con me.

A quel punto mi fu chiaro che l’unica cosa che interessava loro era capire chi fossi ed entrare prepotentemente nella mia intimità subissandomi di domande insidiose che nulla avevano a che fare con il furto ma che erano attinenti unicamente alla sfera della moralità. La situazione si capovolse e divenni l’unico imputato, come il tenero burattino che, derubato delle monete d’oro, viene condannato a quattro mesi di gattabuia . Mi intimarono di confessare chi frequentava la mia casa, a quale ora e perché, in quale stanza ricevevo gli  amici e cosa facevo e come mai abitavo da sola e così via in un crescendo sempre più minaccioso e terrorizzante per una giovane ragazza che parlava appena il francese e che era lì da poco. Importante era farmi sentire colpevole. Non ero un cittadino da proteggere ma una scostumata da mettere alla gogna.

Non ricordo come riuscii a sfuggire a quelle sabbie mobili ma ne venni fuori a pezzi. Fu messa in discussione la mia identità. Venne meno qualunque sicurezza e soltanto allora capii che la mia propensione alle sfide mi aveva portato in una situazione troppo difficile da governare con i pochi mezzi a mia disposizione.

 

Gita in Libia

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copertina della Domenica del Corriere del 1911 dal titolo  “Sbarco truppe italiane a Tripoli. I bersaglieri accolti con simpatia dagli indigeni”

In queste vacanze ho lasciato l’Algeria e mi sono concessa una breve gita immaginaria in Libia sollecitata dalla cronaca di questi giorni.

Nel dicembre scorso si è giunti in Marocco, con il patrocinio della comunità internazionale e dopo lunghi tentativi diplomatici, ad un accordo storico per “unificare” la Libia. Dal 2014 il Paese non aveva avuto un governo unico ma due parlamenti rivali insediati e rappresentanti delle due principali regioni che lo compongono. Il nuovo governo provvisorio con a capo Fayez Al-Serraj dovrebbe eliminare la scissione tra Tobruk in Cirenaica (con un governo ufficiale riconosciuto dall’Onu) e Tripoli con il vecchio parlamento sostenuto militarmente da Alba Libica. Ma il motivo determinante è che l’anarchia seguita al crollo della dittatura ha comportato uno stato di guerra civile con presenza di diversi gruppi di milizie islamiste e il rafforzamento di una sezione locale del sedicente Califfato islamico (Daesh) che occupa la zona attorno a Sirte e che ha già minacciato, in maniera plateale come al solito,di volersi da lì estendere. In Europa naturalmente, ma anche ad Est di Sirte verso le riserve petrolifere. Dietro queste spinte e per scongiurare un ulteriore intervento militare dell’Occidente anti-Is  occorre tentare di ricompattare il Paese e avere un interlocutore certo. La riapertura del dialogo prefigura anche una ripresa di accordi di natura economica e volti a regolamentare il fenomeno migratorio.

Per comprendere meglio il perché della attuale frammentazione politica faccio un passo indietro nel tempo con l’aiuto di  Edward Evans-Pritchard, antropologo e storico inglese che trascorse due anni in Cirenaica come addetto militare dal ’42 ed ebbe modo di conoscere da vicino la società tribale beduina, anche le comunità più nomadi.

La premessa di tutto è che Tripolitania e  Cirenaica sono due regioni separate geograficamente (dal deserto sirtico) e molto diverse per storia, composizione etnica e cultura. Va aggiunto poi che alla definizione degli attuali confini libici si pervenne ad inizio del ‘900  e fino agli anni ’30 per compensazioni belliche, in pratica aggiungendo pezzetti di terra sottratti a colonie di altre potenze.

All’inizio del XIV sec. tutta la zona, Egitto compreso, diventa dominio dell’Impero ottomano che impone tasse ma lascia inalterata l’organizzazione tribale della popolazione beduina, la separazione e l’equilibrio tra centri abitati e società nomade che non prevede un governo centrale. Infatti, – come spiega Evans-Pritchard in Colonialismo e resistenza religiosa nell’Africa settentrionale (Ed.del Prisma) – il principio della struttura tribale è proprio la contrapposizione tra le sue sezioni e il fatto che l’autorità sia distribuita in vari punti ognuno dei quali ha come capo uno sceicco. Aspre contese tribali così come l’insofferenza verso l’amministrazione turca erano parte del quadro.003

In questo contesto, nei deserti della Cirenaica a metà ottocento si diffonde un elemento unificante e civilizzatore delle tribù, la Confraternita della Senussia, inizialmente un movimento religioso missionario diffuso da Alì al Senussi, predicatore di un Islam sunnita di tipo mistico. I numerosi monasteri fondati soprattutto nelle oasi diventano per i nomadi comunità di riferimento religioso, culturale e sociale fornendo anche quelli che oggi definiamo come “servizi”, delle oasi di welfare insomma. E con la mediazione degli sceicchi preposti assolvono anche la funzione di ricomporre le contese tribali.

E’ con la progressiva invasione italiana prima della Tripolitania e poi della Cirenaica che l’istituzione Senussia si trasforma in movimento politico, diviene guida armata per difendere la terra e si oppone ad un’Italia che si introduce con il pretesto di liberare la zona dal dominio ottomano, convinta di conquistare un seguito presso gli abitanti. Calcolo errato che non tenne conto della solidarietà comunque esistente tra Arabi e Turchi entrambi musulmani, e della resistenza che avrebbe fatto il popolo all’ingresso di intrusi infedeli.  In Tripolitania la conquista fu più rapida perché mancava la direzione strategico-militare senussita. Ai primi anni di guerra (1911-1917) e all’esodo della Turchia seguirono vari trattati che riconoscevano l’autorità della Senussia per alcune funzioni, patti del tutto violati con l’irrompere del Fascismo.

I monasteri senussiti vennero distrutti, le loro terre confiscate, il bestiame dei pastori in gran parte ucciso e, allo scopo di minare alla base l’organizzazione sociale nomade tribale, furono attuate una serie di crudeli politiche tra cui la creazione di terribili campi di concentramento per un popolo abituato a vivere in movimento in spazi sterminati. Per assegnare la terra ai coloni italiani vi furono uccisioni e deportazioni di massa dei Beduini tali da giustificare l’uso di termini come sterminio e crimini di guerra. Questa la “riconquista” fascista della Libia. Le sorti della seconda guerra mondiale avrebbero rimesso in discussione questa e altre storie.

Una famiglia tradizionale, o due?

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Orano, 1979, foto di Eugenia Parodi Giusino

Ad Orano ho abitato in un bell’appartamento del centro città, in rue Abd El-Kader – l’emiro, principale eroe nazionale ottocentesco, protagonista della resistenza armata ai Francesi – a ridosso del più grande mercato cittadino. Una casa per me molto grande che una famiglia di medio reddito non avrebbe mai potuto permettersi, e questo era il motivo secondario per cui venivo detestata dal portiere che riusciva a farmi dispetti di tutti i tipi.  Ancora più  intollerabile era la sfacciataggine di abitarvi da sola, per motivi di lavoro, un lavoro dignitoso che presupponeva un’istruzione elevata. Un essere anomalo, che non si riusciva a catalogare.

Nel palazzo abitava anche Monsieur Sherif, il padrone di casa, con la sua (quarta) famiglia. Un ricco industriale di circa cinquant’anni, originario di Mascara, dove era rimasta la sua prima moglie. Della seconda e della terza non ho avuto mai notizie mentre la quarta, che viveva appunto con lui  e i  loro due figlioletti  era una giovane molto bella, bionda, formosa, con occhi azzurri secondo i precisi canoni di bellezza diffusi nei paesi arabi, per lo meno allora.  Abitante della casa era anche una figlia poco più che adolescente di M. Sherif, nata dal primo matrimonio. La sua presenza  in casa era fondamentale: aveva infatti il compito di fare da accompagnatrice, cioè controllore (e spia), della giovane Signora, seguirla le pochissime volte che usciva per andare  all’Hammam o al mercato.

Non ricordo il nome di Madam Sherif ma la sua tristezza, la rassegnazione. Alle mie molte domande rispondeva con monosillabi, quanti ne bastavano per far capire che aveva dovuto recidere ogni precedente contatto della sua vita. E ciò era il punto più alto dove la mia curiosità sociologica e umana potesse avere soddisfazione. Invitata a cena a casa mia la coppia sfoggiava eleganti e costosissimi  vestiti europei acquistati durante i loro viaggi in Europa, a lei era concesso anche un trucco discreto. Non sfuggì tuttavia a mia madre venuta a trovarmi il fatto che la Signora doveva interpellare e chiedere il permesso al marito per qualunque azione, come servirsi del cibo una seconda volta. Per scendere da un piano all’altro Monsieur si portava dietro il cappotto cammello, il cappello e pure i guanti (faceva un po’ più caldo che in Sicilia).  Ma era però a casa loro che la realtà di una dorata schiavitù  mi si appalesava alla vista di un padrone di casa che riceveva me e altri  sul divano (a proposito, divano dal termine arabo-persiano dîwân) mentre la moglie stava accucciata per terra, non mangiava mai con noi e si occupava unicamente del traffico di piatti dalla cucina al salotto.

Coperta dalla testa ai piedi era la Signora quando usciva, scortata, e quest’abbigliamento era per lei di grande imbarazzo incontrandomi per le scale dove non poteva fare finta di non conoscermi. Esterno-interno, casa-mondo, uomo-donna, due universi distinti.

Quella che a me sembrava una rappresentazione teatrale in quanto non volevo  accettarne la realtà, diveniva una  piece  di comicità irresistibile le volte che andavo dal mio padrone di casa per un qualunque motivo. Immancabilmente, la prima preoccupazione di M. Sherif era accendere l’enorme televisore troneggiante, che non una sola volta riuscì a funzionare. Acceso, comparivano righe tremolanti in tutti i sensi e un frastuono insopportabile di mancata ricezione, a dispetto della nuova stazione di telecomunicazioni via satellite di Lakhdaria, vicino Algeri, inaugurata due anni prima. E a quel punto aspettavo con ansia gli insulti in arabo rivolti all’apparecchio da un M. Sherif furioso, scenetta replicata ogni volta e che in parte mi ripagava della vita, non proprio facile, ad Orano.

Non si capisce come il televisore di casa mia, invece, funzionasse; quasi tutte le trasmissioni erano però in arabo classico in coerenza con le politiche culturali del nuovo Paese  che miravano ad unificare tutte le popolazione dell’Algeria cancellandone i dialetti. Ebbe a soffrirne moltissimo, oltre tutta la popolazione analfabeta, la regione della Cabilia, titolare di una lingua propria, berbera. Regione dalla spiccata personalità che ha sempre espresso autonomia, indipendenza, iniziativa, una regione omogenea sul piano etnico, come dice il sociologo Khaled Fouad Allam. Fu l’ultima a cadere nella morsa francese nel 1857 e continuò a ribellarsi anche in seguito. Fu poi l’epicentro dell’organizzazione della Resistenza durante la guerra d’Algeria. Quando tuttavia con l’indipendenza si trattò di dare a tutto il Paese un’identità forte, quello di una Algeria araba, la lingua berbera cabila fu osteggiata, bandita dalla Costituzione secondo cui “la langue arabe est un élément essentiel  de l’identité culturelle du peuple algérien” e ne fu proibito l’insegnamento.

Le rivendicazioni da parte della popolazione cabila della libertà di usare la propria lingua furono, a partire dagli anni ’80, alla base di movimenti di studenti e intellettuali, violentemente repressi nel sangue e ripetuti negli anni a venire con un livello sempre più alto dello scontro che diventa anche politico, economico e implica massicci interventi militari contro i civili, contro i giovani. Nel 2002 la lingua venne alla fine riconosciuta come seconda lingua nazionale ma tra la regione ed il potere centrale non si è giunti ad una vera pacificazione.

(continuerà)

 

Fatti più in là

 

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Orano, ‘1979, foto di Eugenia Parodi Giusino

Arrivata infine ad Orano per circa un mese abitai in una stanza di albergo vicina alla piccola scuola dove lavoravo e questo significò che dovevo andare in qualche ristorante per i pasti, almeno per uno al giorno, tranne qualche occasionale invito di altri Italiani. Il mio modo di  vestire piuttosto austero e il comportamento riservato non erano una difesa sufficiente dagli sguardi indagatori degli altri clienti. Le donne infatti non frequentavano del tutto i locali pubblici. Mai riuscii a convincere una  mia collega italiana, insegnante, che aveva sposato un algerino, a venire a prendere un caffè al bar, dopo le lezioni. Lei non portava il velo e lavorava fuori casa ma, per il resto, aveva del tutto accettato le consuetudini  della famiglia del marito. Da queste prime considerazioni e dal fatto che  camminando per strada sul marciapiede venivo malamente spintonata si cominciò a delineare per me il quadro del rapporto interno-esterno in cui era  coinvolta la donna, in quel Paese.

Mi viene in aiuto per spiegare meglio ciò una lunga intervista rilasciata anni fa e pubblicata da Mondadori alla giornalista  Elisabeth Schemla da Khalida Messaoud, femminista e membro politico algerina, già Ministro della cultura, minacciata per iscritto di morte dai fondamentalisti islamici del Fis (Fronte islamico di salvezza) e scampata a diversi attentati, una ribelle, costretta a vivere anni da clandestina. E divenuta un’ikona del movimento in difesa dei diritti della donne algerine. Nata in una famiglia relativamente aperta della Cabilia, ha sempre creduto e sperato nella realizzazione in Algeria di una repubblica realmente democratica che garantisse una certa separazione tra religione e Stato. Ricevuta un’istruzione ampia, sia laica e religiosa, cresciuta con il mito della Kahina , una regina berbera dell’Aures che lottò fino alla morte per opporsi alla conquista araba del suo territorio, ha visto nella scuola la progressiva trasformazione dei corsi di pura educazione civica in corsi di educazione islamica mentre, nel 1984, veniva approvato un Codice della famiglia apertamente oscurantista e in contrasto non soltanto con i diritti civili ma con l’obiettivo dichiarato dallo Stato di  “modernità” nel campo dell’economia e dell’industrializzazione.

Proprio il Parlamento sancì il concetto che “il musulmano vero è colui che accetta la sharia nella sua totalità” (K. Messaoudi riporta queste parole dal discorso del parlamentare Belkadem), che significava un vero e proprio tradimento nei confronti delle donne algerine e contro il quale a nulla è valsa la lotta di una piccola minoranza. Un potere che ha tradito soprattutto le donne che parteciparono alla Resistenza con slancio straordinario e pagarano con arresti, torture e anche con la morte.

Torniamo per strada. Inizialmente avevo pensato che gli uomini che mi urtavano lo facessero perché, in quanto essere inferiore, avrei dovuto cedere loro il passo. Un modo anche per esprimere disprezzo. Ma c’è qualcosa di più. Khalida Messaoudi  ha spiegato che la strada, in quanto “esterno” appartiene al mondo degli uomini, è cosa loro, una loro proprietà, dove le donne possono soltanto fare una breve escursione rese irriconoscibili dal velo. L’ultimo mese che trascorsi ad Orano camminavo con il capo coperto da uno scialle. Invitata una sera a cena assieme ad alcuni amici italiani e algerini in un pensionato universitario sperimentai poi, pur anche in un ambiente culturale avanzato, la doppiezza di comportamenti che contemplavano una promiscuità uomo-donna all’interno, con cena e balli sfrenati, e l’esclusione tuttavia delle ragazze da una innocente passeggiata. Ancora più incomprensibile per me, dal momento che le studentesse vivevano da sole fuori casa e rappresentavano la generazione  e le classi sociale più evolute e libere. Nel ’77 comunque si viveva ancora  una situazione di relativa libertà al paragone con il baratro in cui l’Algeria doveva scivolare  appena pochi anni dopo con la Primavera berbera, il Fis,  i militari ed il partito unico.

Neanche un’ intellettuale attenta coma Khalida M. si era accorta allora “dei legami profondi e nascosti del nuovo gruppo di potere con l’internazionale islamista”. Anni dopo accusa chiaramente Boumedienne  di avere disseminato il Paese di istituti religiosi che hanno formato gli studiosi di fondamentalismo e quindi di avere creato le basi della presa del potere futuro da parte degli islamisti. Anche la Lega algerina dei diritti dell’uomo venne a poco a poco snaturata sino ad affermare, alle soglie degli anni ’90, per Statuto, che “l’Islam non è solo una religione ma anche una legge, una cultura, una comunità, una regola di vita sociale, giuridica, filosofica ed economica”. Parole chiare e forti che avevo sperimentato in parte, senza volerci credere, per strada. L’Islam, quindi, come sostituto di tutti i problemi, anche sociali, come mezzo per realizzare la riforma sociale globale.

Nell’88 imponenti manifestazioni di studenti e intellettuali furono soffocate dall’esercito nel sangue, si sparò sulla folla disarmata, ci furono arresti e torture sfatando il mito che l’esercito era “al servizio del popolo”. Nell’89 le violenze contro le donno aumentarono. I Municipi, i Comuni diventano islamici. I luoghi di culto, le moschee “spazi politici della vita del quartiere”. Proibiti i corsi di musica e danza nelle scuole, l’arabo classico diventa l’unica lingua ufficiale. Tredici anni prima era ancora possibile iscriversi ad un corso di francese, cosa che feci immediatamente al terzo giorno e dove, facilmente essendo italiana, divenni la prima della classe tra Bulgari e Giapponesi disperati alle prese con suoni che non riuscivano a pronunciare.

(continuerà)

 

 

 

 

 

 

 

 

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La vera natura di un rossetto

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Orano, 1979, foto di Eugenia Parodi Giusino

 

Le snervanti ore trascorse nell’aeroporto di Ageri in attesa che venissero a prendermi furono per altro verso altamente utili perché mi distolsero per un po’ dal pensiero degli umiliantissimi controlli di dogana che avevo subìto all’arrivo. Con fare severo i poliziotti, guardandosi tra loro, si erano accaniti contro il mio bagaglio rovistando oltre che, ovvio, tra i capi di biancheria intima, soprattutto tra i medicinali e i tanti cosmetici che sempre mi accompagnano. Ogni astuccio o rossetto venne lentamente manipolato, osservato, annusato, per costringerlo a rivelare la sua vera natura. Alla fine, per incomprensione, mi fecero transitare.

Ancora oggi non saprei dire se lo scopo dell’ingiustificata e odiosa ispezione era stato quello di intimidirmi e mettermi in difficoltà o se fosse puro zelo, ma propenderei per la prima ipotesi, che contempla una particolare violenza di tipo psicologico nei miei confronti. Probabilmente il massimo esercizio di potere che poteva essere esercitato da un flic (come erano comunemente chiamati i poliziotti, equivalente di “sbirro”) verso una donna europea in quella circostanza. Un altro episodio, per me assai più grave, avvenne comunque tempo dopo ad Orano, città definita da Albert Camus “senza pittoresco, senza vegetazione e senz’anima”e tuttavia “inserita in un paesaggio impareggiabile”.

Nel tentativo di spiegare gli atteggiamenti dei poliziotti mi è venuta in mente la descrizione – che conobbi poi – fatta dal medico psichiatra Frantz Fanon  del rapporto complesso ed ambivalente che ebbe la società algerina verso la medicina occidentale, considerata un portato della cultura dei colonizzatori e perciò da guardare con sospetto. Ed anche quanto riferito dal sociologo a proposito delle penose difficoltà  che,  fin dall’inizio della guerra, incontrarono gli Algerini ad  accedere a medicinali come gli antibiotici, i vaccini ma anche l’etere, l’alcool, le siringhe. Le farmacie tenute da Algerini erano strettamente controllate ed in quelle dei francesi, per ottenere farmaci e disinfettanti, non bastava a volte rilasciare le proprie generalità e quelle dell’ammalato.

La libertà non solo di muovermi liberamente ma di possedere oggetti di uso non comune, quindi in ogni caso oggetti di lusso, era, evidentemente, anche se non per mia volontà, una sfida spudorata per una popolazione che iniziava appena a riprendersi e tra cui fortissima era la disoccupazione, cioè la povertà.

I cosmetici si trovavano certamente nei negozi, ma in assoluto quello più popolare era l’hennè rosso, derivato da una radice, spalmato a profusione sui palmi delle mani e sulle unghie, probabilmente per le sue proprietà ristrutturanti. Erano soprattutto le donne di origine berbera e non giovanissime ad usarlo ed era proprio questo un loro tratto distintivo. Le stesse donne esibivano tatuaggi colorati sulla fronte e sulle mani e spesso portavano il lungo velo bianco mordendolo tra i denti a mò di chiusura, abitudine che non ho osservato in altri paesi di religione islamica. Circa il 30 per cento delle donne che ho incontrato per strada in Algeria non portava velo ed era vestita all’europea. Bisogna aggiungere però che una moltitudine, un altro universo di donne non era visibile in quanto segregata nelle case e quindi le mie statistiche erano in ultima analisi inutili.

Quando si parla della fine di una guerra – e questo vale anche per il bellissimo film di Gillo Pontecorvo, vietato in Francia sino al 1971 – le ultime parole sono per la gioia dei vincitori ma quello che non si può descrivere, perché riguarda il tempo futuro, è ciò che di una guerra rimane nel corpo e nella mente di chi quel trauma lo ha vissuto. Nel caso dell’Algeria attori furono praticamente quasi tutti, un coro. Chi non ne aveva fatto parte non poteva rimanere e prese il largo verso la Francia.

Al tempo in cui c’ero io però un’altra tipologia di algerino aveva deciso di partire. Erano intellettuali, artisti come il famoso musicista Idir , o semplici persone che non se la sentivano di riconfigurare la propria vita in una società  che dichiaratamente era basata non su principi di laicità ma sul credo islamista, con lo strascico delle limitazioni alla libertà dell’individuo e che aveva intrapreso un percorso di chiusura nei confronti dell’Europa.

(continuerà)